[Recensione libro] – Le stelle, l’uomo e gli elementi

Oh, non è che improvvisamente voglia fare un blog di critica letteraria, è che Vallardi continua ad inviarmi i libri di chimica che stampa (pur senza chiedermi nulla in cambio – e comunque, grazie).

Dopo aver ricevuto (a settembre) questo libro uscito a metà ottobre, l’undici (di febbraio) l’ho finalmente terminato. Ma il cazzeggio su Internet non distrae affatto dai propri progetti, eh.

Un ottimo biglietto da visita

Il libro è “Le stelle, l’uomo e gli elementi“, di Anya Røyne; si tratta della traduzione dell’originale uscito nel 2018, quindi, come nel caso di Yorifuji, di un libro che arriva in Italiano qualche tempo dopo la sua pubblicazione originale. Dico subito che non è un problema, il libro non appare datato in alcun passaggio e a differenza dell’altro caso si tratta poi solo di un paio di annetti. È interessante, però, il fatto che il libro abbia vinto il Brageprisen, “il più prestigioso premio letterario norvegese”, ed abbia ottenuto il riconoscimento nella categoria “non-fiction”, quindi non all’interno di un ambiente “protetto” come quello di premi dedicati esclusivamente alla letteratura scientifica. Fin qui, ciò di cui il libro si vanta in sovraccoperta; ma dentro cosa c’è?

Componentistica[1]: qualche difetto

“Le stelle, l’uomo e gli elementi” ha un prezzo di copertina di 16.90 Euro per 250 pagine di carta riciclata da azienda carbon-free, il che si sposa bene con diverse accenni alla preservazione degli ecosistemi trattata nel libro stesso. La grana leggermente ruvida e il colore grigio chiaro non sono sgradevoli, però lo spessore della carta è piuttosto ridotto, tanto da far intravedere i caratteri della facciata opposta e questo, anche se non è tanto marcato da ostacolare la lettura, può essere un poco fastidioso.

Il libro è di un bel formato 15 x 21.5 cm, che non lo rendono propriamente tascabile ma certamente portabile. Proprio riguardo alla portabilità, però, entrano in gioco i problemi legati alla solidità del libro. Questo, infatti, subisce il “viziaccio” di Vallardi di dotare di sovraccoperta tutti i suoi tascabili, brossurati o cartonati che siano. La resa però non è la stessa: se nel caso di un altro loro (vero) tascabile che posseggo e apprezzo, “La nazione delle piante” di Renato Bruni, la copertina rigida rende la sovraccoperta un punto a favore, qui la leggerezza della brossura crea due problemi. Il primo è che il libro in sé ha una copertina celeste del tutto anonima, che ad alcuni potrebbe piacere per il fascino amarcord ma che personalmente trovo decisamente “meh”, il secondo è che, portando in giro il libro, per esempio in uno zaino, la sovraccoperta non è sorretta da una copertina solida, quindi finisce inevitabilmente per schiacciarsi, slabbrarsi e strappucchiarsi[2]. Vedi foto esplicative sotto – certo, magari sono io che sono una bestia, però per chi ha un quotidiano nomade come il mio potrebbe essere rilevante. Personalmente avrei preferito una classica brossura, ovviamente con un cartoncino un po’ più spesso di quello effettivamente presente.

Direi che il mio feticismo materico è stato soddisfatto; proseguiamo con ciò per cui effettivamente si spendono i soldi di un libro, e cioè le informazioni che contiene.

Se funziona, non aggiustarlo

Ma anche “il meglio è nemico del bene” e “fin che la barca va”[3]. La struttura del libro è una di quelle ben consolidate nelle saggistica divulgativa: dopo un primo capitolo di storia naturale degli elementi, in cui si racconta la storia naturale dell’universo e della Terra sino ai giorni nostri, l’autrice prende in esame un elemento, o più spesso un gruppo di elementi affini fra loro per proprietà, e ne racconta la storia dell’utilizzo da parte della nostra specie, lo stato di sfruttamento attuale e le proiezioni sulla disponibilità futura, senza trascurare implicazioni storiche, sociali e politiche legate all’utilizzo.

A livello di forma, la sensazione è appunto che Røyne, anziché introdurre chissà che ardite sperimentazioni, abbia scelto di percorrere strade sicure e ben collaudate e, semplicemente, di farlo bene. Il che non è poco, intendiamoci. Il libro è come un metronomo: un capitolo introduttivo in cui, di nuovo, la storia naturale dell’universo (e dunque degli elementi) e del nostro pianeta viene ripercorsa utilizzando una metafora ben collaudata e cioè riportando quella quantità di tempo inconcepibile ad un anno solare, una serie di capitoli in cui si parte da una serie di circostanze concrete e, spesso quotidiane, per poi parlare degli elementi coinvolti, tre capitoli conclusivi in cui l’attenzione dell’autrice sposta progressivamente il fuoco dagli elementi all’energia (Røyne è una fisica di formazione, per cui suppongo sia stato piuttosto naturale) e che chiude con una critica al modello economico e un incitamento all’azione urgente per affrontare il problema dell’approvvigionamento energetico nel futuro. Decollo, volo, atterraggio.

Voglio essere chiaro: alla fine, questi meccanismi ben collaudati non risultano noiosi. Nessun piacere di grande inventiva, ma molta soddisfazione data da una esecuzione eccellente.

Molta Norvegia (e una critica)

Ora, dal generoso utilizzo del carattere “ø” che per la prima volta in vita mia mi sta facendo fare (son soddisfazioni), è piuttosto evidente che l’autrice , la ricercatrice Anya Røyne, sia norvegese. E nel libro c’è davvero molta Norvegia: gli esempi della vita quotidiana dell’autrice, ma anche storici e dell’industria contemporanea, fanno molti riferimenti alla situazione contemporanea del Paese scandinavo. Intendiamoci, non è necessariamente un difetto, è… strano. Un fatto piuttosto naturale, in effetti; ciascuno si riferisce alla realtà che i propri sensi percepiscono e ogni volta che leggo di quotidiani così diversi dal mio sono da un lato un po’ allontanato da ciò di cui sto leggendo, ma dall’altro anche incuriosito, e mi ritrovo a fissare il mondo da una finestra diversa dalla mia. E questo mi piace molto.

Stacco un attimo dalla scrittura in questo punto esatto e sulla home di Facebook mi appare questa. Creepy.

Poi vabbè, nel caso specifico forse qualunque appassionato di Black Metal sentirà aria di casa, ma cerco di scrivere per persone normali.

Comunque, questa declinazione norvegese è certamente una caratterizzante del libro; l’assenza di cosmopolitismo può certamente non piacere o non interessare, a me è piaciuta. E mi ha fatto parecchio rosicare in passaggi come questo a pagina 171:

In Norvegia ci serviamo delle centrali idroelettriche, e ogni volta che ci occorre un po’ di energia non dobbiamo fare altro che aprire la saracinesca che fa piombare l’acqua sulle turbine. Moltissimi altri Paesi, invece, si servono di combustibili fossili.

ma pazienza. L’orgoglio è, nelle parti sull’energia, abbastanza percettibile, ma mai fastidioso. La “norvegesità” del libro mi ha lasciato perplesso solo in un passaggio a pagina 167, e cioè:

Le società industriali scandinave non sono state fondate sul petrolio, ma sull’elettricità ricavata dall’acqua che il Sole solleva dai mari e porta in cima ai monti. Oggi, la Norvegia è piena di dighe, condotte forzate e turbine che ci riforniscono di energia pulita e rinnovabile.

Erhm… dottoressa Røyne, non lo metto in dubbio, ma non glisserei sul fatto che la Norvegia è stata ed è uno dei principali esportatori di petrolio d’Europa, con una produzione che al suo picco è stata di ventisette volte quella del secondo principale produttore EU, la Danimarca: insomma, molto del denaro per costruire quelle splendide centrali “verdi” arrivò proprio dalla vendita del greggio. Si può dunque dire propriamente che la società industriale norvegese non è stata fondata sul petrolio? Mah.

Un enorme respiro

Ora, la cosa più importante: questo non è un libro di chimica degli elementi. È un libro su come le proprietà degli elementi sono applicate a livello tecnologico, sulla loro storia geologica e industriale, sulle implicazioni geopolitiche del loro utilizzo, sulla loro ricorrenza in natura e disponibilità a lungo periodo in termini di sistema – e il sistema considerato è quello del pianeta Terra (e non solo). In ogni capito, Røyne parte da un fatto quotidiano o personale per poi espandere il discorso circa l’elemento o gli elementi trattati su un piano storico, industriale e infine di attualità per tutta l’umanità, concludendo con prospettive per il suo futuro a lungo e lunghissimo termine.

Questo respiro amplissimo è un qualcosa che ho adorato: mi piace in generale, come (seppure su un tema completamente diverso) fu quando lessi lo splendido Superintelligenza di Nick Bostrom in cui l’ampio respiro è applicato allo sviluppo tecnologico, e mi piace in particolare quando è applicato all’aspetto quantitativo della materia sul nostro sistema planetario.

Facendo un esempio: stimiamo tutto il ferro disponibile sulla Terra in 340 miliardi di tonnellate, del quale l’umanità dovrebbe essere in possesso di circa 50 miliardi di tonnellate, sino a circa 160 miliardi nel XXII secolo, poi estrarlo diventerà troppo costoso. Però nel frattempo l’arrugginimento del ferro non smetterà, così alla fine del 2400 dovremmo avere in totale 30 miliardi di tonnellate di ferro, cioè meno di oggi.
Non vi attaccate ai numeri: sono stime, derivanti da un solo studio (e questo è ben dichiarato). Però dà un’idea della portata del quadro dipinto da Røyne.

In conclusione

Mentre, scrivo, mi rendo conto di avere davvero apprezzato “Le stelle, l’uomo e gli elementi”; non c’è un capitolo da cui non abbia imparato qualcosa, e ho trovato un paio di ottimi spunti di approfondimento ulteriore, in particolare sulla limitata portata temporale di utilità dell’energia nucleare da fissione e sul modello di sviluppo economico. Devo dire che l’apprezzamento è cresciuto col tempo, il libro non è particolarmente “catchy” ma col tempo svela tutta la sua poderosa mole di nozioni molto ben distillate (sono arrivato alla fine prima del previsto perché le pagine da 207 a 243 servono solo ad elencare le fonti utilizzate! Capisco perché l’autrice si sia presa un’aspettativa per scriverlo) e rese molto ben digeribili.

NON è un libro che racconti nel dettaglio cos’è e cosa fa ciascun elemento (per quello rimando ancora semmai al libro di Yorifuji) quanto piuttosto una bella panoramica, ricchissima di spunti, su “La fantastica e catastrofica relazione tra noi e il pianeta che abitiamo” “Un racconto straordinario che unisce scienza, storia e antropologia”, come recita la quarta di copertina.

Lo consiglio? Sì, soprattutto se vi interessa una prospettiva enormemente razionale all’ambientalismo, inteso come cura di un sistema (il nostro pianeta) per preservare le sue parti (noi scimmie).

E poi beh, se un chimico è riuscito a leggere un libro sugli elementi scritto da una fisica non può essere male, no?


Ancora una volta, grazie a Vallardi per l’invio, l’ho apprezzato molto e mi è spiaciuto, al netto delle battute, aver potuto scrivere del libro solo adesso. Al solito, la mia pagina Facebook su cui ogni tanto dico cose e riecco per praticità il link per acquistare il libro, qui.

Alla prossima! 

Le (essenziali) note

[1] Oh, non badate al titolo del paragrafo, è un termine che si usa nelle recensioni dei giochi da tavolo per indicare le componenti fisiche del gioco stesso. Una nerdata così, de botto, senza senso.

[2] Ok, questa è una parola inventata.

[3] Perché noi Italiani dobbiamo sempre impegnarci a fare schifo?

Come funziona il vaccino per COVID-19 di BioNtech-Pfizer

Scrivo il 16 novembre del 2020: come FORSE avrete sentito nell’ultima settimana, il 9 novembre Albert Bourla, CEO di Pfizer, ha rilasciato un comunicato accompagnato da una press release, ripreso credo da ogni testata, rotocalco, sito di news o ciclostilatore del pianeta, in cui annunciava che sino a quel momento il vaccino per la COVID-19 stava dando ottimi risultati. Il vaccino, ideato da BioNtech (avrei voluto approfondire circa l’azienda, ma Shy lo ha fatto prima e meglio di me) e sviluppato in collaborazione con il colosso tedesco, è stato infatti “efficace oltre il 90% nel prevenire la COVID-19”. Cosa questo voglia dire lo spiega benissimo BioLogicismi, per cui vado al punto.

Questo vaccino è eccezionale sotto diversi aspetti. Il primo e più importante è che si basa su una tecnologia mai testata prima su scala così ampia come quella che si prefigura per il vaccino di BioNtech-Pfizer: la sola UE ne ha già ordinato 200 milioni di dosi, con un’opzione per altre 100. Ma passiamo alla ciccia.

Come funziona il virus

Ok, andiamo per gradi. Prima di spiegare come funziona il vaccino, devo raccontare un paio di cose su come funziona il virus. Saltate tranquillamente se lo sapete già.

Cominciamo dall’immagine che ormai è è ben familiare, quella del virus SARS-CoV-2 (COVID-19 è il nome della malattia) realizzata dal CDC di Atlanta:

La parte grigia rappresenta l’envelope del virus, cioè una membrana che delimita il “dentro” e il “fuori” del virus, del tutto simile a quella delle cellule animali – anzi, in effetti tecnicamente l’envelope è fatto da porzioni di membrana delle cellule ospiti (il bastardo). Le capocchie rosse sulla superficie del virus rappresentano invece delle copie di una proteina chiamata “proteina spike”: hanno una parte che si conficca nell’envelope (e che ovviamente non è visibile in questa immagine) e una parte esterna, quella visibile.

Le proteine spike sono le proteine principali con cui il virus si introduce nelle cellule dell’organismo ospite[1] (nella fattispecie, una curiosa scimmia catarrina che vive in simbiosi con una specie di piccoli felini): in breve, quando il virus incontra una cellula respiratoria, le sue proteine spike interagiscono con delle proteine transmembrana esposte sulla superficie delle cellule respiratorie. Queste proteine sono i recettori ACE2 (che ovviamente servono a tutt’altro; le spike del virus si sono evolute per sfruttarle, ma non è che la cellula tenga lì quei recettori in attesa che un virus arrivi e inizi a sfruttarla – sono proprio quegli ACE2 oggetto di bufale assortite girate su WhatsApp): a seguito dell’interazione spike-ACE2, la proteina spike fa partire una sequenza di eventi al termine del quale l’envelope del virus si fonde con la membrana della cellula ospite.

Ora tutto il contenuto del virus, che è molto più piccolo della cellula, si trova all’interno della cellula: diverse proteine ed il materiale genetico del virus (i Coronavirus funzionano a RNA, anziché a DNA come noi scimmie, ma la funzione è la stessa) viaggiano in giro per la cellula, “schiavizzandola” per produrre altri virioni[2] (un virione è la singola particella virale – è un po’ come dire “un virus”), sino ad esplodere liberando in giro molto altri virioni (o un sacco di altra roba brutta, come fondere le cellule in gigantesche cellule polinucleate chiamate “sincizi”… non siamo ancora perfettamente coscienti di ciò che esattamente faccia questo virus).

Tutto questo è possibile perché il virus (anzi, tutti i virus) hackera il normale meccanismo di produzione di proteine della cellula: le informazioni per produrre una proteina sono prese dal DNA – che però se ne sta protetto nel nucleo, mica se ne va in giro. Al suo posto, il pezzetto su cui c’è l’informazione di interesse viene copiato da un’altra molecola, molto più piccola e molto simile: il mRNA. Il mRNA (nelle cellule) è una specie di copia temporanea delle informazioni – la sua funzione è “solo” quella di andare dai ribosomi della cellula, dir loro “oh fra, c’è da fare della MAGL[3], ecco qua come si fa” e poi fondamentalmente, morire (il RNA è una molecola molto più instabile del DNA). A quel punto il ribosoma produrrà la proteina in questione e tanti saluti[4].

Ecco, il virus (come ogni virus) si infila qui in mezzo: riversando nella cellula il suo materiale genetico fa sì che i meccanismi cellulari siano al suo servizio, producendo le sue proteine, che messe assieme genereranno un sacco di propri allegri discendenti che ammazzeranno la cellula e andranno in giro a far danni.

L’ho detto che è un bastardo.

Fra le proteine del virus descritte dal suo RNA, c’è, naturalmente, anche la proteina spike. Teniamolo a mente.

Come funziona la risposta immunitaria ai virus

Oh, scusate, ma ho veramente bisogno di raccontare anche questo. Ancora, se lo sapete, prossimo paragrafo per voi. SONO SOLO CENNI, quindi mi raccomando, se siete interessati approfondite altrove.

Dunque, siamo rimasti alle cellule dell’ospite che esplodono allegramente, rilasciando in giro una quantità demenziale di nuovi virioni; ma è noto a tutti che la maggior parte dei malati di COVID-19 guarisca, quindi non è che proprio il virus faccia il cacchio che gli pare a tempo indeterminato.

Questo perché l’evoluzione ci ha dotati piuttosto presto di un sistema di fuoco contro la feccia virale che prova a fare il bello e il cattivo tempo nel nostro organismo: l’immunità umorale[4].

Ad un certo punto, nel suo vagabondare per l’organismo ospite, un virione, o una sua parte, incontrerà una cellula… un po’ diversa. Si tratta dei linfociti B.

E adesso sono cazzi, amico. Perché i linfociti B non sono gente con cui scherzare: cominciano ad analizzare quello che hanno incontrato e, in particolare, riconoscono un pezzetto della proteina spike di cui parlavo sopra, quello che negli scorsi mesi è stato battezzato Receptor Binding Domain (RBD). Si chiama così perché è il pezzetto tramite cui la proteina spike si lega ai recettori ACE2 delle cellule di scimmia, ed anche perché i biochimici strutturali non è che abbiano molta fantasia coi nomi (sui biologi molecolari stendo un velo pietoso).

Questa cosa ai linfociti B non piace per un cavolo[5]; non gli piace proprio per niente. E allora iniziano a fare quello che fanno meglio: si incazzano come delle bestie, si digievolvono in plasmacellule ed elaborano delle molecole fatte su misura perché siano queste ad andare a legarsi proprio con l’RBD, ne sintetizzano più che possono e BOOM!, le sparano in circolo, come proiettili benedetti dritti al cuore del virus eretico. Quando queste arrivano ai virioni, si legano alle proteine spike, bloccando la loro funzione e rendendo il virus incapace di invadere le cellule umane.

Adesso chi fa il figo, eh? EEEEEEEH, SFIGATO?!?

Questo per quanto riguarda i linfociti B più caldi e proni all’ira. Ma i più riflessivi e studiosi fra loro intraprendono una via diversa: non maturano in plasmacellule, ma in cellule della memoria; restano in circolo più a lungo, molto più a lungo, e se mai nel corso della loro vita (che può durare quanto quella dell’organismo che le ha generate) dovessero di nuovo incontrare quel frammento di proteina (l’antigene), si differenzierebbero immediatamente in plasmacellule, saltando un sacco di passaggi che farebbero perdere giorni per la risposta immunitaria, ed iniziando immediatamente a vomitare le molecole specifiche contro quell’antigene (l’avrete capito, ma queste sono i famosi anticorpi, più specificamente le immunoglobuline G) e annientando immediatamente i nuovi invasori prima che la loro proliferazione abbia inizio, o che assuma dimensioni preoccupanti.

Naturalmente, e la cronaca ce lo ricorda dolorosamente, non va sempre così. A volte il sistema immunitario non riesce a completare il processo prima che il virus abbia fatto troppi danni (le cellule che esplodono o si fondono non sono esattamente una cosa positiva), altre la risposta immunitaria (che è enormemente complessa e coinvolge molti più attori di quelli cui ho accennato qui) è troppo energica, e nella sua furia il sistema immunitario finisce per danneggiare irreparabilmente il proprio stesso organismo.

Se però ci fossero già in giro delle cellule B della memoria con il ricordo di quello specifico virus al tempo della prima infezione, è quasi certo che l’invasione verrebbe stroncata sul nascere. Ed è, lo saprete bene, il principio secondo cui funzionano i vaccini.

Come funziona (finalmente) il vaccino di BioNtech-Pfizer

Normalmente, la generazione di cellule della memoria prima che la malattia vera e propria abbia luogo si ottiene iniettando nell’organismo gli antigeni stessi: pezzetti dell’involucro del virus (o del batterio, mica tutto questo funziona solo per i virus, anche se per i batteri il meccanismo è un po’ diverso), o il virus stesso, morto o in forma cosiddetta attenuata. Questo, pur ottimo, presenta però qualche svantaggio, fra cui la difficoltà nel produrre enormi quantità di vaccino in un tempo relativamente breve (che guarda caso è esattamente ciò che ci servirebbe adesso) ed il fatto che, nel caso di virus interi, il virus comunque metterebbe in atto le proprie difese contro il sistema immunitario (hanno pure quelle, ‘sti infami), complicando il lavoro al sistema.

Come si possono aggirare o quantomeno ridurre questi svantaggi, soprattutto quello della velocità di produzione?

Non sarebbe fighissimo se si potesse far sì che sia l’organismo stesso a produrre la molecola che poi verrà riconosciuta dal sistema immunitario?

Ecco, è esattamente quello che fa questo vaccino.

Si chiama BNT162b[6] ed è costituito da dei “sacchetti” di membrana (vescicole lipidiche) pieni di molecole di mRNA (oddio, pieni… in una dose ce n’è 30 milionesimi di grammo. Ma vabbè, basta quello), quelle di cui parlavo sopra. Queste portano esattamente l’informazione per la proteina spike; il mRNA di BNT162b entra quindi nelle cellule umane, fa produrre loro solo la spike di SARS-CoV-2 (quindi niente cose sgradevoli tipo esplosioni, fusioni in gigantesche cellule polinucleate e altre amenità causate da ‘sto virus demmerd) e questa viene immessa in circolo, dove le plasmacellule potranno caricare le armi e le cellule della memoria prendere i loro appunti per la risposta immunitaria. Che sarà più pronta e potente di quella ottenuta coi vaccini tradizionali, perché in assenza del virus stesso, il sistema immunitario potrà per così dire “concentrarsi” solo sul produrre anticorpi specifici e cellule B della memoria.

INOLTRE E’ UNA FIGATA PAZZESCA!!! FAR FARE L’ANTIGENE ALLE CELLULE UMANE! CHEFFICO!!!

Grazie infinite per i secoli a venire, SMBC Comics

Qualche piccola perplessità

Ma.

C’è qualche questione aperta.

Pfizer, pressata dalle richieste dell’opinione pubblica, ha deciso di rendere pubblico il blueprint del trial clinico per il vaccino, cioè il progetto del processo di sperimentazione del vaccino.

Il trial è progettato benissimo e rispetta ovviamente tutte le normative in questione; c’è molta attenzione alla sicurezza dei partecipanti e del prodotto finale. Tuttavia, il trial prevede delle visite attente agli effetti collaterali della somministrazione di BNT162b fino a sei mesi successivi alla somministrazione della seconda dose e visite fino a due anni dopo, atte a controllare se nel siero siano ancora presenti gli anticorpi specifici per SARS-CoV-2: le cellule della memoria, infatti, non sono tutte uguali, e se per alcune malattie persistono per tutta la vita di un individuo, per altri sono efficaci per poche settimane (basta pensare che il vaccino antipolio viene somministrato una volta sola, mentre di raffreddore ci si può ammalare continuamente, nonostante pure quello generi plasmacellule eccetera). Durante queste visite è anche possibile che vengano segnalati degli effetti indesiderati ragionevolmente riconducibili al vaccino, e se questo è il caso il medico deve segnalarli alla Pfizer.

Ora, è ragionevole pensare che sei mesi siano una finestra di tempo sufficiente a determinare effetti a lungo termine e che la tecnologia a mRNA sia molto sicura. Ma al momento non siamo nemmeno lontanamente vicini a questo limite di tempo. E questo è notevole soprattutto perché questa è una tecnologia che non è mai stata sperimentata per la somministrazione su vasta scala. Chiunque abbia esperienza di pratiche sperimentali sa perfettamente che non sempre le cose vanno come dovrebbero andare, e semplicemente non abbiamo idea di cosa succeda ad un organismo umano uno, due, cinque anni dopo che gli è stato somministrato del mRNA codificante per una proteina esogena, come in questo caso. È ragionevole pensare che le conseguenze siano nulle, ma rimango perplesso della corsa che c’è stata all’acquisto di centinaia di milioni di dosi di questo vaccino. L’impressione è che, data la (innegabile) grande urgenza che c’è di porre rimedio alla pandemia che affligge l’umanità, l’aspetto tecnologico, quello del deus ex machina che ci salvi dal grande male, abbia preso il sopravvento su quello scientifico, che non può che dire “nel peggiore dei casi, semplicemente non sappiamo cosa possa succedere”. Spero che questo pensiero invecchi male, ma è una questione di metodo: sperare non è un atteggiamento scientifico.

Ci sono anche altri aspetti relativi all’efficacia del vaccino stesso: i dati di cui disponiamo al momento sono fondamentalmente i comunicati dello sperimentatore stesso. Ma ad esempio non sappiamo se il vaccino sia efficace allo stesso modo sulle varie coorti di età, per i pazienti più anziani per esempio, che sono anche quelli più esposti al rischio di conseguenze gravi o fatali della malattia. Né, per l’intrinseca questione dei tempi, quanto a lungo duri l’immunità conferita.

Ancora, il mRNA è una molecola instabile (lavorare col mRNA è un dannato incubo, credetemi), che al contrario del DNA si degrada facilmente e richiede di rimanere costantemente a temperature fra i -70° e i -80° C; questo crea problemi nella catena logistica di trasporto e somministrazione che, certo, sono affrontabili ma… da persona abituata a ricevere consegne di reagenti che dovrebbero viaggiare a -80° C in ghiaccio secco… vabbè, auguri (speriamo bene).

Infine, sono rimasto impressionato dall’attenzione mediatica che si è scatenata attorno a questo vaccino. Questa è vorace e volubile, e non tiene conto di considerazioni meno “cool” ma importanti, come il fatto che parallelamente diversi altri vaccini stanno venendo sviluppati, basati su questa tecnologia o su metodi più tradizionali, e che a loro volta arriveranno sul mercato – per fortuna aggiungerei, data la scala della vaccinazione. La settimana scorsa questa attenzione ha raggiunto i picchi massimi, i mercati hanno reagito e il CEO di Pfizer ha (condivisibilmente) pensato di approfittarne incassando più cinque milioni e mezzo di dollari dalla vendita di azioni: non credo che questo sia un cattivo segno della qualità del vaccino (avrei probabilmente fatto lo stesso), ma certamente indica come anche in queste questioni l’importanza dell’opinione pubblica sia fondamentale nel determinare il valore di una scoperta o di una produzione scientifica. È così che “la scienza” deve ottenere valore?

Mah.


Whew, che mostruosità di pezzo. Spero sia stato utile per capirci qualcosa di più; se, al netto delle necessarie semplificazioni, trovaste errori per favore segnalatemeli, controllerò e interverrò prontamente (e vi ringrazio pure). Al solito, c’è una pagina Facebook su cui linko tutto.

Ne approfitto per ringraziare gli amici Stefano Ori e Alessandro Demichelis per i lunghi e proficui confronti.

Alla prossima!

Le (fondamentali) note

[1] Tra l’altro, le proteine spike si vedono bene al microscopio elettronico, conferendo a SARS-CoV-2 e a tutti i suoi parenti stretti un aspetto “coronato”: ecco perché si chiamano “Coronavirus”.

[2] È un processo complicato, che implica molti passaggi e la comprensione di termini ridicolmente astrusi come “monocistronico”; siccome la descrizione completa del processo di infezione dei Coronavirus va molto oltre i miei scopi e a naso qua supererò le centomila parole, non lo descrivo nel dettaglio.

[3] Infilo a forza i miei paper in un articolo divulgativo, dio che trishtezzaaaaaaaaa

[4] Dopo aver descritto il dogma centrale della biologia molecolare in un paragrafo, passo umilmente a fare lo stesso con l’immunità umorale acquisita; mi ripeto, oltre che essere molto colorito, è tutto enormemente accorciato e semplificato – vi prego di approfondire su testi veri se vi interessa. Non posso assolutamente mettermi a scrivere di citochine, cellule APS, linfociti T helper, complesso maggiore di istocompatibilità e simili.

[5] Cerco di mantenermi su un livello di scurrilità accettabile, ma avete capito.

[6] Mi sa che l’hanno battezzato dei biologi molecolari.

[Recensione libro] – La meravigliosa vita degli elementi

Dal nulla…

Verso fine settembre sono stato contattato dalla casa editrice Vallardi, che mi ha proposto l’invio di un nuovo libro del loro catalogo, questo “La meravigliosa vita degli elementi” di Bunpei Yorifuji. Io ho pensato qualcosa tipo “evvai, roba gratis, sono un influencer importante” (mi esalto per molto poco); all’arrivo del libro, ho capito che la mia trasformazione nella Ferragni della chimica italiana era ormai compiuta, il mio successo ottenuto.

Non fate studiare chimica ai vostri figli, poi si ritrovano a scrivere intro così.

Sì, quella in cima è una macchia di unto.
La sovraccoperta riporta, all’interno, la tavola periodica come è illustrata nella parte 3 (vedi oltre)

Adesso l’ho letto con cura e, nonostante Vallardi non mi abbia chiesto di farlo, colgo volentieri l’occasione di scrivere del libro, anche per spezzare l’annetto e passa di silenzio in cui langue il mio blog.

In un guscio elettronico*

“La meravigliosa vita degli elementi” (che poi, diciamocelo, i titoli di ‘sti libri son tutti uguali; vuoi fare un libro divulgativo di chimica che sia originale? Intitolalo “La mediocre esistenza dei composti”. Non garantisco funzioni) è un libro illustrato opera di Bunpei Yorifuji, illustratore giapponese che scopro in questa occasione. In realtà la pubblicazione originaria, da parte di Kagaku-Dojin, è del 2009, ma è stato portato in Italia da Vallardi a settembre di quest’anno.

Si divide in cinque parti. La prima è una parte introduttiva in cui l’autore racconta come è nato il suo interesse per gli elementi (spoiler: rischiando di ammazzarsi con dell’elio. Davvero) e in cui cerca di contestualizzare la presenza degli elementi sulla Terra, oltre che di mostrare come è variata nel tempo la presenza di vari elementi nel contesto quotidiano di ciascuno di noi.

L'”armatura in acciaio” conta anche come tipico abito odierno

Nella seconda e terza parte, che costituiscono il blocco principale del volume, ciascun elemento della tavola periodica viene antropizzato e presentato all’interno di una “super tavola periodica”. In questa sezione, ogni elemento viene rappresentato, appunto, con forme umane maschili e vestito ed acconciato in maniera tale da seguire un codice grafico che dà (o almeno, dovrebbe dare) una idea di insieme immediata sulle proprietà dell’elemento: periodo di massima di scoperta, ambiti di applicazione umana più rilevanti, gruppo di appartenenza e, tutto intorno, una serie di arricchimenti (o rimandi a ciò che c’è nel breve testo) grafici tutti molto carini e pucciosini che concorrono a motivare l’acquisto dei libri illustrati.

Avevate problemi coi pesi atomici, ne avrete di peggiori coi peni atomici

In chiusura, una brevissima parte sulle strutture di alcuni composti di interesse, ed alcuni raggruppamenti elementari, arbitrariamente selezionati dall’autore (es. “il trio dei semiconduttori digitali, “i quattro imperatori esplosivi”). 

Infine, la quarta sezione fa una panoramica sul rapporto fra elementi ed organismo umano: qui è illustrata (in tutti i sensi) la composizione del corpo umano in termini di elementi, le carenze causate da alcuni di essi ed alcuni esempi di fonti di approvvigionamento alimentari nei cibi. Ora che sapete che il sangue di tartaruga è ricco di ferro, non starete mai più senza. 

C’è poi un’ultima, breve parte che ho trovato particolarmente interessante, sulle necessità industriali degli elementi per applicazioni specialistiche e sulla carenza globale di alcuni di essi.

Ma passiamo a giudizi e opinioni, che tanto so che dei fatti ve ne frega niente.

Bestie. 

*il titolo del paragrafo si riferisce all’espressione anglofona “in a nutshell”, che significa letteralmente “in un guscio di noce” e si usa idiomaticamente per introdurre il riassunto di un tema, un po’ come “in breve/in poche parole”. Si chiama “shell”, però, anche il livello correlato al numero quantico principale n di ciascun elettrone di un atomo; insomma, il processo mentale è stato quello di immaginare di storpiare “in a nutshell” in “in an electron shell” (quindi male) e poi di tradurlo, generando così un brutto gioco di parole che in più mi costringe a scrivere questa nota verbosa e pesante. Devo fare più attività fisica.

Quello che mi è piaciuto

Oh, il libro è un libro illustrato e come tale credo che le prime parole vadano spese per rispondere alla domanda: “è bello?”. 

Sì, è bello

Oddio, la tricromia bianco/nero/giallo sulle prime mi aveva un attimo lasciato perplesso, ma in effetti sul lungo periodo devo dire che fa il suo lavoro, risultando stilosetta e, a conti fatti, adeguata allo scopo.

Risulta anche un po’ di sinistra, diciamocelo – ma non preoccupatevi, credo vi possa piacere anche se in camera avete il poster della Thatcher. Lo so, lo so, sembra una cavolata… ma io ne resto convinto. Non ho idea di che cosa stia scrivendo.

Il gioco fa sempre il suo effetto quando si tratta di apprendere, non c’è niente da fare: l’approccio ludico serve bene l’intento di Yorifuji di rendere la tavola periodica più accessibile e semplice da ricordare. Il mio preferito è il neodimio, e adesso non dimenticherò più che si contende col samario il titolo di miglior magnete dell’universo, né che in lega col disprosio si ottengono magneti più resistenti alla smagnetizzazione. Ottimo.

Circa i contenuti, direi che siamo sul “buono” pieno. E’ chiaramente l’aspetto su cui mi sono soffermato con più attenzione e quello su cui romperò di più le balle nell’apposito paragrafo, ma in generale secondo me è una buona lettura/consultazione; certo non un compendio esaustivo sulla tavola periodica – ma non è, palesemente, ciò che vuole essere. Credo meritino una nota di lode la traduzione e adattamento di Ramona Ponzini con la revisione di Andrea Marchesani, perché scorrono benissimo, cosa credo non facile per un’opera di questo tipo. Un paio di imprecisioni sono rimaste, ma so per esperienza che è difficilmente evitabile… ovviamente ci punterò un grosso faro addosso fra un paio di paragrafi, ma che volete farci, è il privilegio di chi recensisce.

Altro aspetto che ho apprezzato della trattazione dell’autore, è che non ci sono sproporzioni particolari nell’approfondimento dedicato a ciascun elemento. E’ chiaro che, per dire, del cloro dice molto di più che non del francio, ma a parte gli elementi ultra pesanti del periodo 7, tutti gli elementi della tavola periodica hanno la dignità di avere una sezione dedicata e, al minimo, un aneddoto interessante o una applicazione pratica. Questo è molto rinfrancante per chi, come me, lavora in campi vicini alle life sciences e si ritrova ad avere una tavola periodica che, fondamentalmente, finisce con il calcio e include sporadicamente qualche metallo di transizione. Che tristezza.

Uh, e mi sono piaciute molto le ultime due pagine della terza parte, in cui si vede come gli elementi interagiscono fra di loro all’interno dei composti; qui il cartoon si fonde perfettamente con la struttura tridimensionale di molecole e sali. Bello, bravo mr. Yorifuji.

Quello che potrebbe piacervi, oppure no

Ecco, una cosa che va nettamente a gusti (e che in effetti a me non piace particolarmente) è che è tutto molto… giapponese. Dal modo di intendere l’organizzazione degli argomenti allo stile grafico, passando per gli esempi fatti sul cibo o di contesto storico, LMVdE (madonna che acronimo terribile) è inconfondibilmente un libro nipponico. Certo, l ‘autore (e Kagaku-Dojin) fa bene attenzione a strizzare l’occhio al mercato internazionale, portando anche qualche esempio, appunto, internéscional*, però com’è, come non è, alla fine saprete perfettamente che il Giappone non è più il primo produttore mondiale di Indio dal 2006 – sono certo non ci dormivate la notte.

Ma niente panico, recuperiamo col selenio!

A parte questo, ho una perplessità sulle scelte di Yorifuji: gli elementi sono antropizzati, e lo sono tutti al maschile. Spesso con tanto di pisello elementale di fuori, tra l’altro. Si potrebbe obiettare che “beh, sono elementi, non elemente, come volevi che fossero?”, però è anche vero che non ho idea del genere attribuito agli elementi in giapponese (in effetti non ho nemmeno idea se ci siano né come siano organizzati i generi, in giapponese; la mia cultura in materia si ferma a “shojo” e “shonen”, e makankosappo a tutti) e comunque, anche in italiano, si usa il maschile in assenza del neutro, è un artefatto linguistico. Una volta che rappresenti un atomo come un essere umano non ci sono motivi precisi per cui questo non possa essere di genere femminile**, perché non rappresentare al femminile il berillio o l’afnio? Tra l’altro, le donne non è che non ci siano: compaiono, ma solo come assistenti alla vestizione, nel rappresentare la coppia stereotipica nella prima sezione, nell’ultima tavola o… ah sì, con due gigapoppe così quando l’autore cita l’uso del silicio nelle protesi al silicone. Ed è tutto.

Cioè.

Ed ecco, ragazze, qualcosa in cui potete immedesimarvi!
“He he”

Devo confessare che col tempo la cosa mi ha infastidito sempre meno e l’ho trovata sempre più veniale, però… non lo so, alla fine sentivo la necessità di sottolinearla. Poi vedete voi.

*che poi vabbè, de facto inizia e finisce con la “colazione occidentale” – con uova e bacon, ovviamente. E’ un libro sul Giappone, dai. E va bene così, è parte del suo fascino.

**o qualsiasi cosa nel mezzo – certo però che rappresentare lo zirconio come, che so, chiaramente mtf sarebbe stato un attimo complicato.

Quello che non mi è piaciuto

Il particolare codice grafico scelto da Yorifuji funziona, ma fino ad un certo punto. C’è da dire che le idee avute dall’illustratore, e la loro realizzazione, sono di per sé più che degne di lode, però… oh, però pur avendo consumato pagina 33 io continuo ad essere convinto che ci sia la ricerca di una qualche corrispondenza fra gli elettroni di valenza di un elemento e le sue fattezze, ma non la trovo. E mi sa che mi inganno. Ci sono inoltre alcuni piccoli accorgimenti che semplicemente non vengono spiegati: elementi classificati come “velenosi” per l’uomo sono rappresentati con degli occhiali da sole, ma questa cosa non è mai spiegata nella legenda (poi può essere che me la son persa io perché son stordito, eh).

Devo però rendere giustizia alle idee dell’autore: non è immediatissimo, ma in effetti ci si può fare un’idea delle principali (o più interessanti) proprietà di un elemento solo guardando il personaggio che lo rappresenta, e non è una cosa da poco.

Veniamo ai contenuti, perché è qua che un libro del genere se la rischia quando è letto da uno specialista. L’ho già scritto, i contenuti sono… buoni. Un paio di errori però li ho trovati, e vorrei che se qualcuno che legge queste righe acquistasse il libro (cosa che non sconsiglio affatto) ne fosse consapevole.

A parte un refuso che veramente da poco (“idrogeno liquido” nella pagina dell’azoto, ma è ovvio che si tratta di un refuso), l’unico errore davvero degno di nota l’ho letto nella descrizione del’ossigeno: “Ruggine e muffa sono due forme di ossidazione”. Erhm… no; la ruggine è una forma di ossidazione, le muffe, invece, sono organismi – che ok che sono delle gran fighe, si mangiano praticamente qualsiasi cosa e prosperano in ambienti impossibili per qualunque altro eucariota, ma sul metallo puro hanno ancora qualche difficoltà, via.

AAAAAAAARGH!!!
(Sulla sinistra, “l’idrogeno liquido”. ‘ste due pagine sono il ricettacolo di sfiga del libro, mi sa)

Credo però sinceramente sia un lost in translation sfuggito al revisore; magari in originale (vado a braccio, non ho assolutamente alcuna cognizione della lingua giapponese) era un qualcosa che alludeva, che so, tipo alle “fioriture” del metallo (boh?) ed è stato reso come “muffa”. Quello che mi preme, però, è che se leggerete il libro avrete a mente che le muffe NON sono forme di ossidazione.

Che poi vi beccate 4 in scienze e la colpa è mia che non ve l’ho detto.

Cosa ci avrei messo, che non c’è? Beh, ecco, quello che trovo manchi quasi senza eccezione nei testi di chimica, o che parlano di chimica, è un chiarimento netto su quale sia la natura di elementi e composti a livello macroscopico, tangibile: un paragrafetto del tipo

un elemento si presenta facilmente in maniera del tutto diversa rispetto ai suoi composti, e c’è caso che le proprietà e l’aspetto dell’uno non c’azzecchino niente con quelle dell’altro. Il sodio, quando è da solo, è un metallo lucentissimo e che si taglia con un coltello, mentre il cloruro di sodio con cui vi hanno fatto due balle così in tutti gli esempi del pianeta è un sale che non ha nessuna delle proprietà macroscopiche del sodio elementare, ANCHE SE in entrambi i casi ci sono atomi “Na” e alcune proprietà sono conservate

aiuterebbe molto a comprendere la differenza fra elementi e composti. Qui non c’è, ed è un po’ un’occasione persa. Ma non c’è praticamente mai, quindi non è una nota di demerito, quanto più un mio desiderata.

In conclusione

Cos’ho (ancora) da dire, dopo questo colossale tl;dr?

Che “La meravigliosa vita degli elementi” è, al netto dei suoi (pochi) difetti, un libro piacevole, molto bello graficamente (e grazie) e che, secondo me, è un acquisto per sé che vale la pena, o un regalo molto piacevole se siete in cerca di qualcosa di nerdy che non vi svuoti le tasche, sia bello, utile ed originale e non sia la solita stracazzo di tazza con la formula di struttura della caffeina o peggio la scritta “se non sei parte della soluzione, sei parte del precipitato”.

Cioè, raga, basta, davvero.

Io la odio, quella battuta.

Anzi, la iodio.

Pubblico in delirio. Sipario.


Come sempre, GRAZIE per aver letto sin qui – e stavolta un bel “grazie” anche a Vallardi per l’invio della copia, anche se mi sa che se ne sono già pentiti. Ho latitato per un sacco di tempo dallo scrivere ma ho la seria intenzione di riprendere, perciò se vi divertite cliccate in giro le varie campanelle e soprattutto considerate di seguire la pagina Facebook che, essendo vecchio, uso come social principale. Ciao!

Se il libro vi interessa, potete acquistarlo a questo link.

Il demone e la scimmia

La scimmia cercava lungo la strada, quando all’improvviso le si materializzò di fronte il demone.

Questo era una figura il cui simile la scimmia non aveva mai visto sino a quel momento: in qualche modo le assomigliava, ma allo stesso tempo non era come nulla che avesse mai visto. La sua pelle, o meglio la sua superficie, era liscia, lucida e dura; un po’ come i gusci duri degli insetti, certo, ma anche profondamente altro.

Non era né maschio né femmina, eppure era entrambi allo stesso tempo; la scimmia lo trovava attraente e repellente allo stesso tempo, seduttivo eppure intrinsecamente portatore dentro di sé di qualcosa di profondamente sbagliato. Avrebbe voluto essere in grado di capire meglio quell’essere, di definirlo meglio; ma in fondo, non era che una scimmia.

La scimmia era spaventata dal demone, ma meno di quanto forse avrebbe dovuto essere. Ogni sensazione, ogni singolo pensiero o emozione che il demone le suscitava era pervaso di ambiguità, conteneva dentro di sé il proprio opposto e non si faceva alcun problema a palesarlo apertamente. Sembrava prendersi gioco di ogni legge della natura, ma era anche portatore di una enorme potenzialità , che null’altro al mondo poteva avere. La scimmia lo sentiva e, certamente per questo, non fuggì terrorizzata dal demone ma, anzi, non appena il demone le si rivolse, si ritrovò ad ascoltarlo avidamente (la scimmia era molto curiosa).

IMG_20190628_190307“Scimmia, vengo per portarti un dono; ti vedo sorpresa, eppure so che mi cercavi. Per quarantamila anni non hai fatto che cercare freneticamente me: ciò che io ti porto, ciò che io sono.”

La scimmia era ammutolita. Il demone allungò un braccio e chiuse la mano a pugno, ma senza stringere, come a voler tenere un bastoncino in orizzontale davanti a sé. Qualcosa cominciò a prendere forma nella mano del demone, anzi sembrava scorrere dalla mano:  prima una forma ad arco verso il basso e poi, collegata a questa ma indipendente, apparve… sì, era un secchio. Ma era un secchio completamente diverso da quelli cui la scimmia era abituata: non era di metallo, ma sembrava fatto della stessa materia di cui era fatto il demone – in effetti proveniva da questo, l’ipotesi era ragionevole. Il secchio era di un bel blu lucido e, come il corpo del demone, dava l’impressione di essere duro; ma dava anche quella di essere un oggetto incredibilmente leggero, ed era pieno di granuli bianchi.

Adesso la scimmia era un po’ spaventata.

Ma restava terribilmente curiosa.

“Ecco il mio dono. È una materia come non ne hai mai avute a disposizione: potrai plasmarla in qualsiasi forma tu voglia e di essa ci sono moltissime varietà, così tante che ne troverai con ogni proprietà che ti serva. Ma in tutti i casi, sarà molto più leggera dell’acciaio, sarà impossibile che arrugginisca e un oggetto fatto con essa non si romperà, se dovesse cadere. Potrai plasmarla scaldandola e soffiandola, proprio come il vetro, ma ti basteranno temperature molto inferiori per farlo; e proprio come il vetro, essa potrà anche essere trasparente, rimanendo però infrangibile.

E ti dirò di più: è praticamente eterna.”

La scimmia era stupefatta.

“Demone, tu mi fai un dono incredibile. Ma io conosco la tua stirpe, e so che non fate nulla per nulla: cosa vuoi in cambio?”

“…oh, non preoccuparti. Ti farò sapere.”

La scimmia allungò la mano e prese il secchio senza pensare.

Il dono del demone

La scimmia fu sedotta quasi immediatamente dal dono del demone.

E comprese in fretta che, per quanto sgradevole, il dono era assolutamente meraviglioso. IMG_20190624_180636Si trattava della materia più incredibile che potesse immaginare: bastava uno stampo e la scimmia poteva farle acquisire e conservare letteralmente qualsiasi forma; non solo, ma bastava aggiungere un pizzico di questo o un pizzico di quello e questo materiale fantastico acquisiva tantissime proprietà differenti.

Soprattutto, era bellissimo. All’improvviso, un multiverso di funzioni e di forme prima solo sognate le si spalancò innanzi. Bastava fare uno stampo (molto più semplicemente che per i metalli, tra l’altro), scaldare un po’ dei magici granelli, colare nello stampo il materiale fuso ed ecco fatto. Qualsiasi cosa poteva essere ottenuta. Ed in quantità enormi.

Meravigliata, la scimmia diede un nome a questo dono, una parola che assomigliava al dono del demone: aveva un suono sgradevole a pronunciarsi, ma allo stesso tempo affondava lunghe radici nella storia di quel mondo, mondo cui si trovava pur senza appartenervi del tutto. Questo nome descriveva perfettamente come il dono del demone fosse in grado di essere  plasmato perfettamente e senza fatica in una forma a scelta del suo padrone; di come questa materia dei miracoli fosse plastica.

IMG_20190622_110413La vita sulla Terra conosceva già da molto tempo delle molecole simili alle plastiche: tutti i viventi si basavano da sempre su delle sofisticate nanomacchine che, sfruttando la poca energia data dal calore circostante, potevano dare il via a delle reazioni chimiche altrimenti impossibili. Queste nanomacchine, dette enzimi, erano formate da delle catene di centinaia di piccole molecole, gli amminoacidi, che unendosi davano vita a delle nuove molecole, formate da catene di centinaia di aminoacidi, dalle proprietà completamente diverse rispetto a quelle delle molecoline di partenza: gli enzimi, appunto.

Di più, le piante avevano trovato il modo di utilizzare alcune delle loro nanomacchine, per unire fra loro non aminoacidi, ma migliaia di piccole molecole di glucosio, formando una gigantesca molecola dalle proprietà strutturali eccezionali, che non si ripiegava ma dava vita a dei bei filamenti lineari, sui quali basarsi per poter costruire dei fusti molto alti e resistenti: si trattava della cellulosa.

IMG_20190628_190326Siccome gli organismi, sino a quel momento, avevano avuto moltissimo tempo per incontrare e studiare tutte queste enormi molecole, chiamate collettivamente polimeri proprio perché formate da molte piccole molecole unite fra loro, avevano anche avuto occasione di sviluppare alcuni enzimi dedicati specificamente a fare a pezzi i polimeri, smontandoli nelle molecole di origine: questo era particolarmente utile, perché tutti i “mattoni” dei polimeri erano riutilizzabili in qualche modo.

Il dono del demone mimava questo meccanismo, ma utilizzava dei mattoni diversi rispetto a quelli cui i viventi erano abituati. Si trattava di piccole molecole antiche, piuttosto rare e difficili da ottenere sulla superficie, ma che si potevano estrarre in grande quantità e con relativamente poco sforzo dalle viscere della Terra: manufatti diabolici necessitano di risorse provenienti dalle profondità infernali, ovviamente.

Quando entrarono in contatto con il dono del demone, i viventi si trovarono perciò di fronte a qualcosa con cui non sapevano come comportarsi. I loro enzimi, diventati estremamente efficienti nel demolire i polimeri nel corso del tempo, non sapevano come comportarsi di fronte

a queste molecole: entravano sì in contatto con loro, le accomodavano nei propri siti attivi, ma poi… non trovavano niente di ciò che si aspettavano. Un gruppo estereo da attaccare, un atomo un po’ carico da sfruttare per far partire un mutamento conformazionale che avrebbe scatenato la catalisi… nulla. Le plastiche stavano lì, facendosi beffe degli enzimi dei viventi proprio mentre stavano sotto i loro denti, diventati improvvisamente inutili di fronte all’inattaccabile monotonia del poliestere o del polipropilene.

Le plastiche potevano essere eliminate solo nei modi tradizionali per la distruzione degli IMG_20190626_202149_sfocartefatti infernali: tramite il fuoco, o tramite esposizione prolungata alla luce del sole. Ma ben presto la scimmia dovette realizzare che anche queste soluzioni erano perlopiù illusorie: a meno che la combustione non fosse condotta in condizioni estremamente controllate, le fiamme eliminavano sì le plastiche, ma il processo dava origine a composti aromatici estremamente tossici per ogni forma di vita o quasi. Il potere della luce del sole, invece, era tale da riuscire a spezzare e ossidare le molecole dell’entità demoniaca, rendendo efficaci gli enzimi dei viventi nell’annientarla una volta per tutte. Ma la luce del sole aveva un importante problema: era terribilmente lenta nello svolgere questo processo, e nemmeno il suo potere bastava a tenere a bada la quantità smodata di plastiche che la scimmia, in un tempo brevissimo, aveva fatto comparire sulla Terra.

La mente della scimmia

La scimmia cominciò a considerare il problema quando scoprì che la plastica aveva un potere infernale: non si poteva realmente distruggere per via meccanica, ma solo scindere in pezzi più piccoli, così piccoli che potevano persino diventare invisibili, sino a scomparire alla vista ma senza perdere la propria natura. Erano così piccoli, e la plastica prodotta in quantità così copiose, che cominciò a capire che il dono del demone era entrato anche letteralmente dentro di lei, in forma di pezzi piccolissimi, ma pur sempre dotati di tutte le loro proprietà. Il dono era lì per restare, e lei ne era stata corrotta. Prima all’esterno, producendo con le plastiche non solo oggetti che altrimenti non sarebbero stati possibili e che le avevano permesso evoluzioni stupefacenti in campi come l’ingegneria avanzata, la ricerca biomedica e infiniti altri, ma anche milioni di oggetti di consumo dalla vita utile brevissima, ma che non avrebbero cessato di esistere per secoli. I mari, le terre, il pianeta ne era pieno. E poi all’interno, perché quella quantità immensa di materiale demoniaco si stava scindendo in pezzetti infinitamente minuscoli, pervadendo ogni angolo animato ed inanimato del globo, inclusa la scimmia stessa.

Pensò di riparare al danno, ma ormai era troppo tardi: il dono del demone l’aveva 6g2pbhv8k1tscompletamente assuefatta, e nulla poteva farla tornare indietro. La sua mente si era evoluta rispondendo a stimoli appartenenti ad un mondo in cui la scimmia doveva riprodursi e sopravvivere e null’altro, non ad uno che avrebbe dovuto preservare, anzi; e questa mente non poteva rinunciare al salto epocale di qualità della vita che la scimmia aveva avuto grazie al dono del demone. Evolutosi per reagire a pericoli immediati e visibili come una tigre o un incendio, il cervello della scimmia non riusciva facilmente a trarre conclusioni complesse, quindi a registrare quel materiale liscio, colorato come una minaccia: per esso, ciò che contava è il qui ed ora, non il frutto ipotetico di sue elaborazioni. La considerazione che il bicchiere del caffè bevuto in qualche minuto le sarebbe sopravvissuto di diversi secoli appariva fumosa e distante, il caffè profumato e invitante. La consapevolezza che per produrre quegli oggetti lisci e lucidi stava trasferendo quantità immense di carbonio dal sottosuolo alla superficie, e poi da lì all’atmosfera creando problemi catastrofici, era oscura e incerta; gli oggetti, invece, tangibili e piacevoli.

Intanto, la produzione di plastiche continuava ad aumentare.

Lo sguardo dell’alieno

Non lo so, scimmie; per me il problema non sta nel manufatto infernale che vi ritrovate a maneggiare, ma in quello che avete in testa. E’ evidente che fate molta fatica ad identificare i i pericoli privi di zanne o artigli affilati, il che non è sorprendente, dato che le vostre capacità interneuronali sono sorte in un mondo in cui era molto più facile tumblr_lw0tmrnM8M1qhslato1_640morire dilaniati piuttosto che intossicati, o in una catastrofe climatica che avete causato collettivamente. Peggio di tutto, siete estremamente scettici verso le vostre stesse conclusioni, e sinché non potete percepire le conseguenze di quei pericoli come fareste con degli artigli o delle zanne, semplicemente non fate nulla per evitarli.

Non potete farci niente, siete fatti così.

Col dono del demone non siete diversi: piuttosto che buttare via dei broccoli che mangerete fra due giorni, li avvolgete in un oggetto che potrebbe durare un millennio. E intanto fate spallucce di fronte al fatto che il mondo intorno a voi viene lentamente ma letteralmente modificato da questo, abbruttito oltre la possibilità di recupero, le altre specie decimate, la vostra intossicata.

Non voglio mentirvi, né spacciarvi soluzioni semplici: a differenza della progenie infernale, io non voglio donarvi nulla al di fuori di voi, ma qualcosa al di dentro.

Voglio che alziate lo sguardo dalle mie parole e che vi soffermiate su uno degli svariati oggetti di plastica che sicuramente avete intorno e che iniziate a vederlo per quello che è: un manufatto pieno di una potenza inespressa, progettato per servirvi al massimo qualche anno, ma che difficilmente morirà mai del tutto prima che la vostra civiltà abbia termine. Ha il volto rassicurante di una penna, di un pupazzetto di qualche promozione o di un oggetto da cucina, ma in realtà è un manufatto pieno di una vitalità inarrestabile.

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Ecco, guardate agli oggetti di plastica in questo modo in tutti i momenti, mentre siete al lavoro, per strada, in casa. Pensate che settant’anni fa nessuno di questi esisteva, e la vostra specie prosperava ugualmente.

Se questo comincerà a generarvi un senso di angoscia e di oppressione, allora potrò darvi il benvenuto nel mio mondo. E a parlarvi di come, nonostante tutto, credo sia ancora possibile portare a termine il compito immane che la mia specie insegue da moltissimo tempo: distruggere il demone (continua).


Ben ritrovate, scimmie! La tematica è immensa, tanto che ho deciso di dividere il mio discorso sulle plastiche in due parti – questa è quella catastrofica e in cui mi diverto a raccontare, la prossima sarà meno narrativa e un po’ più speranzosa. Ma non troppo: credo che la divulgazione debba sì non generare allarmismo gratuito, ma Greta Thunberg ha ragione, se casa tua sta bruciando la cosa giusta da fare è andare nel panico e correre a prendere dei secchi, non cercare chi ti dica “nessun problema, va tutto bene”. 

La tematica è ovviamente immensa e multisfaccettata: per questo suggerisco  due approfondimenti divulgativi apparentemente poco attinenti. Il primo è il classico Il mondo senza di noi di Alan Weisman, che a mio parere aiuta a rimettere le cose in prospettiva. E a proposito di mettere le cose in prospettiva, il secondo è La scimmia nuda di Desmond Morris, ovvia ispirazione per il tema del post e, comunque, testo fondamentale per chiunque, a mio modesto parere. Poca chimica a ‘sto giro, insomma, ma vedrete che il focus tornerà presto da quelle parti.

A presto con la seconda puntata!

Le meraviglie del maka

(Colonna sonora obbligatoria:)

La trap, ormai ben stabilitasi in Italia, è probabimente il genere musicale che farà da marchio generazionale per gli adolescenti di oggi

mi spiace ragazzi, è fatta

(il che, mettendo in conto che noi ci siamo beccati gli 883 e Gigi D’Ag non è poi così male).

Sì, vale anche per i dissociati che si sono sfondati di black metal e rap.

Come è lecito aspettarsi da un genere musicale nato tra gli appartamenti abbandonati dove si sintetizza e si spaccia droga, l’uso di stupefacenti è un motivo costante nei testi delle canzoni trap, come pure aleggia continuamente nell’immagine di sé che danno i trapper. La cosa interessante è che fra le icone della trap italiana è entrato di prepotenza

perlopiù in maniera finemente sottintesa, come nella “Sciroppo” che spero stiate ascoltando

il purple drank, un beverone fatto con ghiaccio, Sprite e sciroppo per la tosse che contiene codeina; il risultato è il “succo rosa”, onnipresente nei testi di Sfera Ebbasta, Capo Plaza, Drefgold e colleghi. Agevolo:

https://www.instagram.com/p/BnORTRynpa9/?tagged=makatussin

Ok, bisogna ammettere che esteticamente è piuttosto figo.

Parentesi storica

Se, come è normale, non ve ne frega niente delle varie formulazioni del purple drank fra gli hippoppari degli anni ’90 a Houston, saltate pure al prossimo paragrafo.

Definire chimicamente il contenuto del purple drank è complicato dal fatto che le sostanza contenute variano a seconda degli sciroppi usati. L’uso della miscela origina nelle comunità hip-hop di Houston dei primi anni ’90, agli albori della trap: lo sciroppo utilizzato per il purple drank (o “lean”, o “sizzurp” – pronunciato più o meno “sìzarp”, nello slang statunitense) conteneva, oltre alla codeina, un altro principio attivo, la prometazina.

La prometazina è un antistaminico, ma in più è un forte sedativo ed è pure moderatamente antipsicotico…  in alte dosi (e indovina un po’ a che dosi si mette lo sciroppo, nel lean?), però, oltre ai forti effetti sedativi dà anche delle sgradevoli allucinazioni: stando agli utilizzatori, si vedono ombre agli angoli del campo visivo, si cominciano a sentire voci che sussurrano il proprio nome… roba brutta.

Un’altra formulazione piuttosto diffusa usa uno sciroppo che non contiene prometazina né codeina, ma il destrometorfano. Questo invece dà effetti dissociativi – in pratica, distorsioni di immagini e suoni, oltre ad un senso di leggerezza e di distacco dalla realtà.

Ah, il lean “tradizionale” viene preparato in un bicchiere di polistirene, con ghiaccio e aggiunta di alcune caramelle dure allo zucchero che, unite alla Mountain Dew (un analogo della nostra Sprite, via) danno una “botta” di dolce ad ogni sorso.
Oh, le tradizioni sono tradizioni.

Il maka

In realtà, il lean che si beveva nel Texas di venticinque anni fa c’entra fino ad un certo punto col “maka” continuamente nominato dai trapper italiani contemporanei, checché ne dicano gli hashtag di Instagram. Siccome la droga di strada viene preparata un po’ con quello che si ha a disposizione, dalle nostre parti la componente attiva dell’amabile bibitone rosa è data da un altro sciroppo, il Makatussin Comp.

Sciroppo
Che ha questa faccia qui

Ed ecco spiegato il nome “maka”, direi.

Il Makatussin Comp. contiene una buona quantità di codeina, oltre ad un altro principio attivo, la difenidramina. “Parente” della prometazina che si trova negli sciroppi statunitensi, il principale effetto collaterale grave dell’abuso di difenidramina nel breve termine sono le difficoltà respiratorie. E questo è un problema.

La codeina

Perché le difficoltà respiratorie sono il marchio di fabbrica degli effetti collaterali della codeina; il che è piuttosto logico, visto si tratta di una molecola che blocca la tosse a livello del midollo allungato, la parte del cervello che controlla sciocchezzuole involontarie come il battito cardiaco e, appunto, la respirazione.

La codeina viene utilizzata come antidolorifico e, soprattutto, come antitussivo (il Makatussin viene venduto come sciroppo per la tosse) dall’estrema efficacia per la tosse secca cronica.

E  ci credo, ferma il riflesso della tosse direttamente nel cervello

Ma anche “stica” della tosse, se uno si beve il maka. Già, perché si assume la codeina?
È piuttosto semplice capirlo dando un’occhiata all’aspetto della molecola:

Oppiacei
Và come son professionale ad usare MarvinSketch, và

La codeina è, come tutti gli oppioidi, praticamente identica alla morfina, una parente decisamente famosa. L’unica differenza è quel “CH3-O-” rispetto all'”HO-” della morfina.

Tecnicamente sono un gruppo metossi ed un ossidrile, ma anche “sticazzi”

Non è una gran differenza, no? Ed infatti non lo è neanche per l’organismo che, una volta che la codeina è entrata in circolo, ne trasforma una parte in morfina. L’entità di questa “parte” varia: di solito è intorno al 10%, ma qui entra prepotentemente in gioco la variabilità individuale. Alcuni individui hanno un metabolismo particolarmente attivo nel trasformare la codeina in morfina,

E’ una trasformazione a carico del CYP2D6, ed alcuni individui sono “metabolizzatori ultrarapidi” tramite il 2D6. Qua lo “sticazzi” esplode ed illumina l’avvenire, proprio.

il che li mette particolarmente a rischio di intossicazione acuta da morfina (vedi sopra alla voce “difficoltà respiratorie”… moltiplicato per dieci), oppure ne aumenta le chances di diventare dipendenti dalla codeina.

Perché il problema principale, probabilmente, è questo. Come accennavo sopra, la codeina è un oppioide naturale, ed in tossicologia “oppioide” è (scientificamente parlando) sinonimo di “causa una dipendenza della madonna“. Dipendenza fisica, fra le più ostiche da risolvere… “eroina” dovrebbe rendere l’idea (magari una volta ne parliamo, anche perché l’eroina ha un meccanismo d’azione davvero interessante).

Comunque, mettendo un attimo da parte i possibili problemi, l’assunzione di dosi massicce di codeina provoca (come è intuibile) effetti simili a quelli della morfina: sedazione immediata che si traduce in senso di rilassatezza e di mente sgombra ed euforia, che aiuta a rafforzare l’insorgere della dipendenza. Gli effetti sono comunque abbastanza moderati, specie se rapportati alla pericolosità della sostanza.

Un caso di cronaca

Il mio interessamento per la trap (mentre scrivo questa riga sto ascoltando “Tran tran” di Sfera Ebbasta… tò, ve la metto)

ha fatto il giro opposto: non mi sono interessato al maka ascoltando la trap, ma ho iniziato ad ascoltarla dopo aver scoperto che ‘sta cosa degli sciroppi alla codeina ha fatto capolino anche in Italia, sull’onda del lifestyle mostrato dai trapper nostrani.

https://www.instagram.com/p/BjnSAOFA7_m/?taken-by=drefgold

Però è una cosa cui Dref allude sempre in maniera sottile, va detto.

Non si tratta di una novità assoluta: già a fine 2015 Dolcevita ne parlava, riprendendo un articolo de Il Giorno in cui veniva raccontato come, sfruttando il fatto che il Makatussin in Svizzera viene venduto senza ricetta medica, i ragazzi del Nord Italia (e Lombardia in particolare) avessero preso a fare dei “pellegrinaggi” verso le farmacie svizzere per procurarsi il maka. La cosa viene raccontata in un reportage della RSI di marzo 2016,

con dei contenuti interessanti ma che trovo pervaso di un moralismo difficile da sopportare, ve lo dico

che però si colloca già in un momento in cui l’allerta era stata lanciata e le farmacie avevano già smesso di vendere il Makatussin Comp. ai minorenni.

Qualche considerazione

Questa la situazione sino a due anni fa; ed oggi? Non ne ho idea. Spentosi il fiorire di articoli a seguito dell’articolo de Il Giorno la notizia non venne seguito dai giornali (ma posso sbagliare), però è difficile che la moda si sia spenta… anche perché la codeina dà una discreta dipendenza, come scrivevo sopra. Verso la fine di quel periodo ci fu un articolo piuttosto polemico di Noisey che accennava al fatto che i “pellegrinaggi” si fossero spostati verso la Francia, il che è totalmente probabile.

Ad oggi il Makatussin Comp. è sparito dall’elenco dei prodotti della farmaceutica Gebro Pharma, che lo produce e rivende, ma dubito sia sparito anche dalle farmacie. Comprendo il tono polemico di Noisey.  La circolare citata nel reportage dice testualmente:

Visto quanto precede, raccomando a tutti i farmacisti del Cantone di essere molto restrittivi nel dare seguito alle richieste di Makatussin sciroppo da parte di adolescenti che potrebbero rientrare nel contesto descritto.

Erhm… che significa, esattamente? Che un adolescente che non rientra nel “contesto descritto” può acquistare tranquillamente il Makatussin a casse? E chi lo decide se un adolescente rientra nel “contesto descritto”? In base a cosa?

Mah.

Personalmente trovo il maka una droga… veramente del cacchio. Ma proprio come rapporto costi/benefici, dico: a conti fatti, si tratta di un qualcosa che dà effetti molto moderati, a fronte di rischi pazzeschi, sia in termini di intossicazione acuta, sia di dipendenza fisica. A quel punto, voglio dire…

Ho provato anch’io la codeina, fa più una canna

Lo dice un trapper eh, non un chimico

Quanto è ignorante, ‘sto video? Fantastico.

La ciliegina sulla torta

Uh già, dimenticavo: ho parlato degli effetti da intossicazione acuta, ma non di quelli da utilizzo cronico – che sono piuttosto rilevanti, visto che iniziano a manifestarsi già dopo un mese di utilizzo. A parte cose come l’aumentato rischio di morte in generale (che vabbè, detta così non fa molto effetto), l’uso degli sciroppi a base di codeina intacca l’integrità della materia bianca del cervello a livello microstrutturale, il che porta a comportamenti impulsivi accentuati

adolescenti più impulsivi… sembra esattamente ciò di cui avevamo bisogno.

Infine… tutti gli oppiodi portano alla stipsi. E quando si smette, beh… è meglio tenersi l’agenda vuota per un paio di giorni, fra, perché l’organismo ci metterà un po’ ad abituarsi e, come dire… quei due giorni li passerai seduto sul cesso.

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19/01 Sciroppo ft. @sferaebbasta 🍼

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Ci avevate pensato, voi due? No che non ci avevate pensato.

E se l’universo volesse proprio trollarti, mentre sarai lì sopra ti piglierà pure un attacco di tosse.


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Di glifosato, cancro e sentenze giuridiche

San Francisco, venerdì 10 agosto. L’ex giardiniere quarantaseienne Dewayne Johnson

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che, purtroppo per lui, non è Dwayne Johnson

raccoglie in tribunale una vittoria storica: la giuria stabilisce che Bayer, il produttore dell’erbicida Roundup, è responsabile del cancro da cui l’uomo è affetto e condanna la multinazionale del farmaco a pagargli un risarcimento di 289 milioni di dollari. Bayer farà certamente ricorso, ma intanto si stima che sulla scia di questa sconfitta altre quattromila cause più o meno identiche siano pronte a partire.

Con ordine

Il Roundup è l’erbicida a base di glifosato, una molecola famosa per le controversie sulla sua supposta cancerogenicità.

Quando le agenzie hanno ribattuto la notizia della sentenza, è bastato qualche nanosecondo perché comparissero sui social (ma anche sui giornali – che mi guardo bene dal linkare) i proclami del tipo “il tribunale ha stabilito definitivamente che il glifosato è cancerogeno!!!11!!UNO!”, subito seguiti da quelli (scritti dai più studiati, ché sono cose di scienza) che lamentavano di come “una giuria scelta a caso ha deciso una verità scientifica per alzata di mano, è uno scandalo”.

Andiamo con calma, allora.

Monsanto/Bayer

Comincio con un chiarimento: parlo di “Bayer” e non di “Monsanto” perché l’azienda dell’agrobiotech è stata recentemente oggetto di un’acquisizione da parte dello storico leviatano tedesco della farmaceutica; l’anno scorso, l’Unione Europea fermò l’acquisizione, perché l’antitrust europeo aveva giusto giusto un paio di perplessità circa i problemi che dare vita alla “più grande società integrata del mondo di pesticidi e sementi” avrebbe creato… ma niente di che, perché all’inizio di questa primavera le resistenze sono venute meno e poco dopo è stato annunciato che il marchio Monsanto avrebbe smesso di esistere.
Siccome la sentenza di cui parliamo è del 10 agosto 2018 mentre la fusione si è conclusa il 7 giugno dello stesso anno, farò riferimento a “Bayer”, sebbene tutte le fonti parlino di “Monsanto”.

In questa storia, quindi, il “Golia” di turno è davvero perfetto per interpretare il ruolo della multinazionale del male degna di una distopia cyberpunk: diavolo, parliamo di una mostruosità barocca che faceva un netto di più di sette miliardi di euro PRIMA dell’acquisizione!

E che solo nel 2017 ha speso quattro miliardi e mezzo di euro in ricerca e sviluppo. Tre anni prima, l’Italia ne ha spesi poco meno di 6.7, però per tutta l’università.

Eh ma che bastarde, ‘ste Big Pharma.

Giusto per curiosità, fà vedere che posizioni aperte hanno, nel settore R&D…

Il glifosato

Come dicevo, il glifosato è il principio attivo del diserbante Roundup, l’erbicida più usato al mondo della storia umana, e di gran lunga.

Glyphosate-3D-balls
Per gli amici, N-(fosfonometil)glicina

Il Roundup è in commercio dal 1974; oltre al glifosato, contiene agenti che ne facilitano la penetrazione all’interno della pianta e l’adesione alla superificie fogliare. Il suo grande successo commerciale è dovuto al fatto che il glifosato è un eccellente erbicida aspecifico, nel senso che ammazza tutte le erbe con cui entra in contatto (o quasi, perché delle erbe resistenti le sviluppa anche lui) e ha due importanti vantaggi:

– agisce quando viene spruzzato sulle foglie
– uccide anche le radici ed eventuali fusti sotterranei (rizomi) delle piante

Poche altre sostanze sono controverse quanto il glifosato. Come spesso accade con i pesticidi di largo uso, le preoccupazioni si incentrano sul fatto che è facile che dei residui di erbicida siano ancora presenti sui cibi (e in effetti un report commissionato da Food Democracy Now! e The Detox Project ce li ha trovati) e che, una volta ingeriti, possano essere tossici o cancerogeni. Inoltre, l’introduzione delle sementi “Roundup Ready”, ossia di sementi geneticamente modificate per resistere al Roundup (sementi ovviamente brevettate da Monsanto), ha generato ondate di ostilità verso la multinazionale di rara portata.

Fare una panoramica completa sulle controversie cui il glifosato è andato incontro (e limitandosi a quelle tossicologiche) sarebbe materiale per una vera review

, che comunque chiunque troverebbe insopportabilmente noiosa

: qui mi limito a dire che già nel 2015 il glifosato fu il protagonista di una sorprendente controversia su scala internazionale, perché l’Iarc, l’agenzia dell’Oms per la ricerca sul cancro, pubblicò un parere in cui lo giudicò “probabilmente cancerogeno”. La sorpresa era dovuta al fatto che questa conclusione andava dalla parte opposta rispetto ad un parere dell’Efsa, l’agenzia europea per la sicurezza alimentare, e ad uno dell’Echa, quella per le sostanze chimiche; il parere dell’Efsa, tra l’altro, fu poi oggetto di una contestazione da parte di una novantina di scienziati, ma l’agenzia rispose pubblicamente rimanendo sulle proprie posizioni e difendendo la bontà dei metodi adottati. Due anni dopo sostenne anche che non ci sono prove né preoccupazioni che il glifosato alteri i meccanismi ormonali.

Ma aspetta, c’è un altro colpo di scena: un’inchiesta della Reuters fece emergere che lo Iarc, nel passare dalle bozze alla versione definitiva del proprio report, ne aveva fondamentalmente ribaltato le conclusioni, passando dall’escludere il ruolo del glifosato come cancerogeno renale per i topi al supporre che la responsabilità fosse proprio dell’erbicida. Lo Iarc non ha mai replicato.

Come che sia, l’anno scorso l’EU approvò l’uso del glifosato per altri cinque anni. Nel frattempo, nessuna prova che il diserbante sia cancerogeno è stata trovata, neppure fra i lavoratori agricoli (ad eccezione di una possibile correlazione col mieloma multiplo, comunque incerta). In alcune situazioni in cui gli agricoltori non usano i dispositivi di protezione e bevono acqua contaminata, il glifosato sembra avere un ruolo nel determinare una patologia renale cronica… ma in effetti non è molto sorprendente che se usi pochi vestiti e non ti proteggi mentre spruzzi diserbanti e bevi acqua contaminata tutti i giorni, poi starai male.

Insomma, trarre conclusioni è davvero difficile. Per esempio, uno studio brasiliano ha concluso che il glifosato causa problemi respiratori importanti ai girini della rana toro americana, ma questo non significa assolutamente nulla relativamente all’esposizione ed ingestione da parte degli esseri umani (però significa anche che le problematiche ecologiche legate ai pesticidi restano tutt’altro che trascurabili).

Il caso Johnson

E veniamo finalmente al caso di cronaca di questi giorni: Dewayne Johnson ha lavorato come giardiniere dal 2012, ed era addetto a spruzzare il Roundup, a volte anche per ore di seguito. Due anni dopo gli venne diagnosticato un linfoma non Hodgkin, che oggi è in stadio terminale e gli causa forti dolori.  Mentre scrivo, a Johnson restano probabilmente pochi mesi di vita, il che è un pensiero davvero molto doloroso. Per lui e la famiglia mi dispiace moltissimo, so cosa voglia dire vedere una persona non ancora cinquantenne dover morire a causa del cancro e, per quello che può valere, hanno i miei completi rispetto e solidarietà.

Ciò che ha convinto la giuria (popolare, lo ricordo) a giudicare Bayer colpevole di aver messo Johnson in pericolo è stata la lettura di alcuni documenti interni dell’allora Monsanto: mail interne in cui responsabili di prodotto si chiedono “come combattere” la diffusione di studi che mostrano una possibile correlazione fra l’esposizione al Roundup e l’insorgenza… proprio del linfoma non Hodgkin, prove che esperti che lavoravano per Monsanto decenni fa e che sono stati sostituiti dopo aver espresso preoccupazioni circa la sicurezza del Roundup e così via.

La giuria, dunque, è stata convinta dalla difesa di Johnson che Bayer fosse nelle condizioni di sapere che il Roundup era pericoloso. E che sia in qualche modo responsabile della malattia nonché della futura morte dell’uomo.

Troppi “che”, ma è ferragosto e non so come uscirne. Abbiate pazienza.

In conclusione

Ancora una volta, in conclusione… nulla. Decenni di studi scientifici non hanno trovato una prova definitiva circa la tossicità o la cancerogenicità del Roundup, non c’è molto da aggiungere.

Diverso è giudicare la sentenza,

se proprio uno ritiene necessario farlo, ecco

perché occorre tenere presente che i giurati hanno assistito in aula ad accuse rivolte a Bayer di essere “andati contro la scienza

occielo

, hanno letto email estrapolate dal contesto e sono stati sottoposti ad articoli scientifici accuratamente selezionati dall’accusa… non è che si siano messi a fare una revisione della letteratura per poi uscire dalla sala consiliare gridando “Eureka! Il glifosato è cancerogeno!“.
No, l’idea è piuttosto che siano stati impressionati dagli elementi portati alla loro attenzione. Comprensibilmente, tra l’altro.

Non significa nemmeno che Bayer sia certamente innocente eh, né che il Roundup sia così sicuro che si potrebbe usare come base per alcuni cocktail; voglio solo dire che una scorsa della letteratura scientifica esistente sul glifosato, anche molto sommaria,

non che la mia lo sia stata, sia chiaro, anzi è stata incredibilmente accurata ed approfondita; sarà stata anche di, non so, un’ora, un’ora e mezza…

permette rapidamente di trovare tutto ed il contrario di tutto. Di sicuro l’uso dei pesticidi (erbicidi ed anticrittogamici… roba che ammazza le piante infestanti e gli insetti, dai) è un tema complesso

oh, io lo so che mi ripeto, ma alla fine l’unico messaggio che vorrei veramente passasse è quello

, che non può essere affrontato partendo con l’idea di “convincere” qualcuno della bontà della propria posizione.

Non è il mio campo e mi fermo qui. Di sicuro però dare giudizi sommari e sbilanciati (“pesticidi e ogm sono fantastici, i salvatori dell’umanità” “no, sono il male, viva il bio e il resto è Satana”) non è mai una grande idea, parlando di temi del genere.

Uh, e neanche dire “hanno deciso la verità scientifica per alzata di mano” o “ecco, è la prova che il glifosato è cancerogeno!” lo è.

Ma spero si capisse.


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Perché non parlo di vaccini

Mi è stato chiesto più volte di scrivere di vaccini da parte di persone che apprezzano quello che scrivo (grazie), spesso con la convinzione che l’avrei fatto “blastando” gli “analfabeti funzionali”, o comunque in maniera ferocemente “pro-scienza”. Le ho sempre deluse, adducendo come motivazione il fatto che non sono un esperto (è un fatto vero), ma soprattutto che non lavoro in ambito sanitario e quello dei vaccini non è un problema scientifico.

E, a dirla tutta, ‘sto dibattito sui vaccini che sembra rinverdirsi ogni sei mesi circa mi annoia profondamente e non è un argomento che trovi così interessante.

Non è e non può essere una questione scientifica

Scusate, ma la scienza (che poi, ‘sto citare “la scienza” a ogni pié sospinto mi lascia almeno perplesso… ma aspé, ci torniamo) cosa altro dovrebbe dire, esattamente? Ci sono già tutti i dati epidemiologici per ciascun vaccino in commercio, le percentuali di efficacia, quelle delle reazioni avverse e compagnia cantando. Che altro volete? Risposte secche, del tipo “buono/cattivo”? Non funziona così.

Non funziona così perché una volta che le scienze biomediche hanno detto qualcosa come “efficace al 99%, sicuro al 99.8%, la malattia invece al 10% dà delle complicanze gravi” non è che possano dire molto altro.

A parte tutta una serie di dettagli qualitativi circa i meccanismi immunologici che portano a questi numeri, ma guardiamo la realtà in faccia: di quelli non frega niente a nessuno.

Prendiamo ad esempio un numero dato a caso: il 99.8% di sicurezza. E’ tanto? E’ poco (tenendo poi presente che già la definizione di “sicuro” è tutto fuorché univoca)? Come già dicono centinaia di articoli e video che infestano ogni angolo della rete, la questione sta nel valutare il rischio insito nella pratica vaccinale, quello delle possibili complicazioni date dalla malattia e la percentuale di efficacia del vaccino, e da lì trarre le conclusioni (che solitamente sono schiaccianti a favore del vaccino).

I numeri non aiutano

Il problema principale nel trarre conclusioni di valore sta nel fatto che l’oggetto di valutazione, in questo caso, sono persone. A me, come analitico, viene spontaneo dire qualcosa del tipo “ok, errore inferiore di brutto al 3%, per me è sì, andiamo avanti”, ma non funziona (solo) così.

Prendiamo in esame qualche numero reale, già che ci siamo: il vaccino MMR (il cosiddetto “trivalente” contro morbillo, parotite e rosolia) ha un’efficacia fra il 90 e il 95% dopo la prima dose, che diventa quasi assoluta dopo la seconda dose – in effetti il richiamo serve ad immunizzare coloro che non hanno risposto alla prima. Prendendo in esame il solo morbillo, si vede subito che è una malattia pericolosa: il 30% circa di coloro che lo contraggono sviluppa complicazioni, con una mortalità che arriva allo 0.2 – 0.3% negli Stati Uniti. Il vaccino MMR, invece, dà effetti avversi seri nello 0.003% dei casi circa – e parliamo comunque di carenze di piastrine transitorie, non di rischio di vita se non in casi particolari: non c’è partita, anche solo per quanto riguarda il morbillo, il vaccino è cento volte meno pericoloso della malattia che previene e l’OMS non esita a raccomandarlo.

Ma allora da dove mai arriva l’esitazione o addirittura il rifiuto alle vaccinazioni? Sono tutti scemi o pazzi? Impensabile.

Resto fermamente dell’idea che, almeno in Italia, le cause siano da ricercarsi nella cattiva comunicazione sanitaria, specie riferita agli anni passati.

E in alcuni svitati irriducibili, naturalmente. Ma non sono loro il vero problema.

Un problema di comunicazione sanitaria

Su questo, circa un anno fa si è già espressa Annalisa in un famoso articolo cui ho dato un mio (molto modesto) contributo

consistito principalmente nel gestire gli umori dell’autrice mentre lo scriveva

e meglio di una professionista della comunicazione sanitaria non saprei fare. Dal mio punto di vista, però, alcuni numeri sono fondamentali per “fotografare” un possibile modo di nascita e sviluppo dell’esitazione vaccinale nel nostro Paese. Riprendiamo un attimo, a titolo di esempio, le statistiche statunitensi sul vaccino MMR: dopo poco più di una settimana dalla dose, il 5% circa dei vaccinati sviluppa rash cutanei – che per intenderci sono una roba molto brutta, tipo quella raccontata in questa pagina di blog (ho preso volutamente una pagina “popolare” – non aprite se il gore dermatologico non è la vostra passione).

Ed il punto è proprio che un conto è leggere su una pagina una frase asciutta come quella che ho usato io prima: “il 5% circa dei vaccinati sviluppa rash cutanei” (che peraltro spariscono spontaneamente in capo a qualche giorno), un’altra è vedere tuo figlio che da un giorno all’altro si copre di segni rossi che gli causano prurito e lo fanno piangere. Ipotizziamo che uno dei genitori, a questo punto, corra al centro vaccinale e chieda delucidazioni circa le condizioni del figlio. Verosimilmente nella maggior parte dei casi gli verrà spiegato che, appunto, succede una gran parte delle volte, che non c’è nulla da temere e che sparirà da solo. Idealmente gli verrà ricordato che il vaccino è molto più sicuro del morbillo stesso e blablabla.

Ma se un genitore riceve una risposta del genere:

“Signore, lei è pazzo. Il vaccino non c’entra. Torni a casa.”

Frase realmente riportatami, non invento nulla.

Quale sarà la facile conseguenza? Che il genitore, confuso, preoccupato e ferito, volgerà l’orecchio ad altre voci, voci che gli daranno conforto, ragione e getteranno benzina sulla fiammella del dubbio che adesso gli si è accesa dentro.

Sono gli svitati cui accennavo prima. E che non linko perché, veramente, già il blog della famigliola americana era un crollo nello stile, ma qui si precipita proprio nella spirale dei sitacci con vesti grafiche che erano già vecchie nel ’93

Nel frattempo, al bambino il rash sarà bello e che passato, ma probabilmente ora non riceverà gli altri vaccini, oppure li riceverà molto in là col tempo, beccandosi una inutile finestra temporale di rischio in cui potrà contrarre delle malattie prevenibili. E intanto abbiamo creato una bella coppia di no-vax più o meno radicalizzati, con cui sarà difficilissimo se non impossibile ragionare.

E ho parlato solo dei casi di reazioni avverse non gravi; immaginate cosa può capitare dopo un caso di reazione avversa grave che venisse accolto come sopra. Genererebbe abbastanza rabbia da far nascere una setta di adepti del metodo naturale di lotta alle malattie infettive, direi.

Che consiste nel non far nulla, se non fosse chiaro.

Di questo meccanismo di radicalizzazione non ci sono sfortunatamente dati quantitativi né prove che non siano aneddotiche (e detesto non essere in grado di portare dati precisi), ma di certo, restando alle reazioni non gravi, il 5% è una percentuale enorme. Parliamo di cinquemila soggetti ogni centomila vaccinati; persone che parlano con altre, si consultano fra amici, si fanno sentire nel dibattito pubblico.

E a proposito di dibattito pubblico.

Blastare non serve

Aaaaaaah, il blasting… quella pratica meravigliosa che piace tanto a grandi e piccini, inventata da chissà chi, resa celebre da Enrico Mentana

Mentana blasting
Esempio trovato dopo una ricerca di 0.8 secondi

ed adattata mirabilmente al contesto dall’immancabile Burioni.

Burioni
che però ultimamente si esprime artisticamente soprattutto su Twitter (che non so usare, quindi lo screen l’ho fregato da una pagina di adoratori)

Ora… io, davvero, non riesco a capire chi si esalta di fronte a questo modo di esprimersi, lo adotta a sua volta ogni volta che può e poi se la prende vedendo avversari ideologici adottare livelli di aggressività simile o superiore.

Come già avevo scritto a proposito dell’omeopatia, sono convinto che tutto questo non serva a nulla, se non a provare per un momento l’ebbrezza di fare la parte del bullo, anziché del bullizzato. Ma un bullo sempre bullo resta, e credo che questo atteggiamento non faccia che dare origine ad un altro “zoccolo duro”, una tribù opposta a quella dei “no vax”: quella dei… boh, di quelli che hanno letto un libro di Burioni e si sentono in diritto di dare del “poco scientifico” ad uno che di lavoro fa ricerca biomedica, suppongo.

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AAAAAH… molto meglio.

E così, con questa contrapposizione fatta di torce e forconi (che di scientifico non ha nulla, se non le rivendicazioni) la triste commedia del “noi contro di voi” va avanti. E però è importante sottolineare che l’esitazione vaccinale è un problema tenuto in seria considerazione dall’OMS, che lo considera una questione delicata e non suggerisce certo di insultare chi ha posizioni scettiche verso i vaccini.

Ma il peggio deve ancora arrivare. Perché dove c’è una tribù fortemente ideologizzata, c’è anche un bel giacimento di consenso pronto per essere prosciugato, che attende solo che qualche fazione politica faccia proprio il tema e cerchi di riunire tutti gli appartenenti alla tribù sotto la propria bandiera.

E qui di tribù ce n’è addirittura due: i “pro vax” e gli “anti vax”.

Gesù Cristo, che tristezza.

E alla fine arriva la politica

come puntualmente è accaduto. E durante la scorsa campagna elettorale abbiamo assistito alle prime conseguenze di ciò che accade quando un tema trasversale, complesso, delicato e importante come quello delle vaccinazioni di massa finisce nel tritacarne della comunicazione politica che, come da copione, lo ha spietatamente risucchiato, semplificato, banalizzato, trasformato in slogan e, peggio di tutto, in bandiera. Chiedere per favore di non farlo non è servito a molto.

La superficialità del dibattito ha portato presto alla sovrapposizione fra le vaccinazioni, un tema circoscritto e tutto sommato fino a quel momento abbastanza “freddo”, e “la scienza” tout court: all’improvviso, nella percezione comune l’essere univocamente a favore di una scelta politica come l’obbligo vaccinale è diventato essere a favore “della scienza”.

(Tra l’altro non passa mai di moda il dire che la scienza non è democratica. Il che, all’interno di un dibattito politico democratico, tradisce dei desideri latenti giusto un filo-filo inquietanti – tutto quello che mi viene da chiedere ai sostenitori di ‘sta bestialità è: “ma quanto siete frustrati?”)

E basta, finita lì. O sei (brutalmente) a favore di questo pacchetto di proposte o sei “no vax”; o sei a favore di questa proposta in questi precisi termini o sei “contro la scienza”. Nessuna discriminazione del particolare, nessun rispetto o attenzione per il contesto, per la complessità, di cui invece, almeno a mia conoscenza, la scienza si nutre.

Mi fermo qui. L’ottimo Massimo Sandal ha già scritto un bell’articolo spiegando perché la scienza non può essere oggetto di propaganda politica – alle sue argomentazioni aggiungo solo che ragionamenti analoghi ma opposti possono (e devono) essere fatti dinnanzi a proposte sbalorditive come l’ultima, quella di quarantenare i bambini appena vaccinati.

Che fare dunque?

Non lo so.

Credo che il dibattito pubblico sul tema abbia raggiunto vette di inasprimento tali da rendere improponibile affrontare il discorso, che si parli dell’obbligatorietà o meno dei vaccini, del loro rapporto rischi/benefici o delle cause e dei numeri dell’esitazione  vaccinale in Italia – che sono tutti temi profondamente diversi fra loro, ma, ahimé, nel calderone tutto si mescola in un pappone in cui discernere alcunché diventa impossibile. Non invidio i divulgatori che tentano di affrontare il tema.

Credo anche sia ora di ammettere che questo dibattito non è poi così importante o influente – né, come accennavo all’inizio, particolarmente interessante, almeno per quanto mi riguarda. Oggettivamente, specie ora che il rischio di un’epidemia di morbillo appare scongiurato, non abbiamo un’epidemia di malattie esantematiche in corso, né legioni di bambini storpiati da pericolose vaccinazioni, quindi misure urgenti da prendere non mi pare ce ne siano.

La mia personale risposta resta quella con cui ho titolato questo pezzo: io di vaccini non parlo, e finita lì.

Se volete, fate pure. Scegliete la vostra tribù, stringete in mano la bandierina del vostro scimmione alfa preferito, ficcatevi l’elmetto in testa e via, lanciatevi pure a testa bassa nel dibattito.

Adottare un altro approccio sarà particolarmente sgradevole, sappiatelo: perché una volta che le questioni diventano importanti per questioni di identità ed appartenenza, a non stare da nessuna parte si finisce con lo stare sul cazzo un po’ a tutti.

AGGIORNAMENTO: nello scrivere “non lo so” mi riferisco alla situazione del dibattito nostrano, che, almeno per un discreto periodo di tempo a venire, trovo abbia raggiunto un livello di polarizzazione e scontro irreversibile. In realtà degli studi che propongono approcci che paiono efficaci esistono: proporre alla popolazione dei dati che parlano dei rischi connessi alle malattie prevenibili, dell’innocuità dei vaccini o addirittura la narrazione di storie individuali drammatiche di bambini irrimediabilmente danneggiati da queste malattie non serve.

Mutuando alcune idee dal marketing, un’idea interessante è quella di parlare in positivo dei benefici connessi all’immunizzazione, senza trascurare gli aspetti emotivi. Ma questa è solo un’opinione: un semplice metodo immediatamente applicabile per incrementare il numero dei vaccinati è quello di ricordare alle persone che è ora di vaccinarsi.


GRAZIE di aver letto sin qui! Fatemi sapere che ne pensate nei commenti e se avete domande, curiosità, critiche o commenti vari da fare non esitate, qui o tramite la pagina di Contatto! Se il tema vi interessa, oltre alle fonti disseminate nell’articolo (Burioni è attivo su Facebook) vi segnalo anche Il Chimico Scettico, che di vaccini parla spesso e con Burioni è in aperta polemica. Se avete la pazienza di separare le “sparate” partigiane dal resto, sono due fonti ricche di contenuti interessanti… visto il clima creatosi intorno al tema della vaccinazioni, raccomando comunque sempre la consultazione del numero più vario possibile di fonti, oltre che un attento studio individuale, per quanto possibile. E PER DIO NON PARLATENE MAI SUI SOCIAL, PER NESSUNA RAGIONE 😀 .

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La chimica dell’amore

 

E così le amiche di Amori 4.0 mi hanno chiesto di imbrattare il loro blog con un breve pezzo sulla biochimica che sta dietro all’insieme di sensazioni che il popolaccio chiama “amore”.

Pessima idea.

E siccome parliamo di “amore”, cioè di un concetto effimero, soave, descritto da secoli di letteratura di altissimo livello eppure mai pienamente definito, anzi la cui definizione si potrebbe paradossalmente dire indefinita, collettivamente generata in maniera pan-umana e transculturale,

cosa cavolo ho scritto?

sarebbe decisamente un peccato se qualcuno distruggesse tutto descrivendo questo “amore” come un processo neurochimico attraverso cui due esseri umani giungono all’accoppiamento.

Non vedo l’ora.

Prima viene la bestia

E così, capita. Due individui, che per semplicità descriveremo di sesso maschile e femminile ma qualsiasi altra combinazione andrebbe bene

con ‘ste psicologhe bisogna sempre fare attenzione

si incontrano e… si attraggono. Per qualche misteriosa ragione, l’ipotalamo decide che il corpo ha bisogno di più ormoni: allora fa partire una lunga quanto noiosa da descrivere cascata ormonale. Questa provoca un aumento degli ormoni in questione: testosterone per i maschi ed estrogeni per le femmine.

Che causano… desiderio sessuale.
Ebbene sì: il primo step dell’ “amore” è quello del desiderio. Stacce.

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Lui è il colesterolo. Ti fa paura, eh? L’organismo lo usa come base per la biosintesi di testosterone ed estrogeni. Non fa più così paura, eeeeh?

Già in questa fase, tra l’altro, si può assistere ad una diminuzione dell’attività delle aree cerebrali che regolano il pensiero critico, la coscienza di sé ed il comportamento razionale.
Tutto bene, non farai nulla di imbarazzante in questa fase.

E i famosi feromoni? Beh, la nostra specie si affida fortemente al senso della vista, sia nella vita in genere, sia nel trovare potenziali partner. La maggior parte degli animali, però, si affida ad una serie di messaggeri chimici per la comunicazione riproduttiva: questi messaggeri sono i famosi feromoni (o “ferormoni”… anche io sono impazzito a lungo per capire se ci fosse una grafìa corretta), che in realtà sono definiti più o meno come ormoni che influenzano il comportamento di altri organismi rispetto a quello da cui vengono prodotti. Fra queste influenze c’è, ovviamente, la disponibilità all’accoppiamento. L’esistenza stessa dei ferormoni (uso entrambe le grafìe così vi incasino) e dell’organo preposto a percepirli presso gli esseri umani è dibattuta,

ma proprio una roba tipo “non li ho trovati, ti dico!”
“No, sei tu che non sei buono a capire quando un feto morto ce l’ha!”,
cose così. Incredibile.

quindi devo deludervi e non parlarne per nulla. Mi spiace, però posso consolarvi dicendo che i feromoni appartengono ad una classe di composti con un nome fighissimo: i semiochimici.

Poi, le frecce avvelenate di Cupido

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Cupido – che se ti innamori a Papua Occidentale ti appare così.

Poco fa abbiamo lasciato i nostri due simili in un bagno di ormoni steroidei, che verosimilmente avranno fatto il loro lavoro di aumento del desiderio e portato a logiche conseguenze. Nel frattempo i due avranno pure fatto in tempo a rivestirsi, ma siccome parliamo di amore non finisce tutto qui.
Dopo il desiderio, avremo quindi il secondo step, quello dell’attrazione. Ora i livelli di una sostanza presenti nel sangue si innalzano: questa è la β-feniletilammina (PEA), che si rinviene in quantità scarse nel sangue di chi è affetto da ADHD  (disturbo dell’attenzione) ed allo stato puro è una sostanza corrosiva.

Per dire.

E’  questo il veleno di Cupido. Normalmente, la PEA agisce da regolatore dell’umore e dello stress, ed aiuta nella concentrazione. Ha però fama di tipica “molecola dell’innamoramento”, e con delle buone ragioni: ha infatti anche l’effetto di attivare l’aumento di altre due sostanze in circolo, la noradrenalina e la dopamina. La prima è un eccitante, e causa il sentimento di agitazione, con il seguito di manifestazioni come mani sudaticce e alte amenità. La seconda è una notissima molecola che, per dirla in brevissimo, attiva il circuito cerebrale della ricompensa e fa dire “ancora”: insomma, in questa fase l’amat*

dio quanto li odio, ‘sti asterischi. Và che mi fanno fare…

causa dipendenza ed agitazione.

Ah, e pare pure che in questa fase si verifichi una diminuzione dei livelli sanguigni di serotonina, una molecola coinvolta nell’appetito e nel sonno.
Chi altri ne ha livelli molto bassi? Ma chi è affetto da disturbo ossessivo-compulsivo, che domande.

No, ma è tutto molto bello.

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Però è illustrato in maniera spettacolare da Compound Interest.

Il colpo di grazia

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Cosa è successo a questo blog?

Dopo un periodo di tempo più lungo, il danno viene concluso dal rilascio di ossitocina e vasopressina. Si entra così nell’ultima fase, quella terminale in cui il paziente può dichiararsi perduto, dell’attaccamento. In realtà, proprio per effetto di questi ormoni la relazione in questa fase tende a diventare più “amicale”: la fase di attaccamento si osserva anche in rapporti di amicizia, nel legame figlio-genitore e in altre relazioni intime ma prive di desiderio ed attrazione.
La concentrazione nel sangue di ossitocina, detta anche “ormone delle coccole”,

e che dopo la “molecola dell’innamoramento” fa sparire ogni resto di rigore da queste pagine,

sale alle stelle poco prima del parto, dando anzi inizio al processo, e resta a livelli elevati anche durante l’allattamento, perché tra le sue funzioni ha quella di stimolare le ghiandole mammarie a produrre il latte materno. Le sensazioni di benessere legate all’innamoramento sono rafforzate dall’ossitocina in una sorta di feedback positivo, rafforzando la sensazione di legame verso le persone amate in genere.

Ah, e la vasopressina è anche nota come ormone antidiuretico. Se amate qualcuno, insomma, dovreste andare in bagno un po’ meno spesso. Non so, magari aiuta.

Tutto molto bello

però anche no. E’ un bell’elenco di sostanze amorose; sembrerebbe che basti assumere queste sostanze regolarmente per vivere un’esistenza di amore e serenità. Purtroppo non funziona così, perché gli ormoni e i neurotrasmetittori che ho citato in questa carrellata non sono necessariamente associati al sentimento tutto sommato positivo

ecco, l’ho scritto

dell’amore. Oltre alle circostanze che ho già descritto, la dopamina ha un ruolo fondamentale anche in condizioni di dipendenza da cibi o droghe d’abuso: queste ultime, in particolare, scombinano il sistema di regolazione della produzione di dopamina, causando la sensazione di insoddisfazione perenne tipica dei tossicodipendenti gravi (però è un argomento lungo e complesso, che qui posso solo accennare). La sensazione di attaccamento dovuta all’ossitocina sembra possa condurre a difendere i membri del proprio gruppo sino a condurre al pregiudizio, o addirittura alle guerre.

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…ma guerre un po’ come questa di Banksy

Insomma, nonostante una discreta conoscenza dei meccanismi neurochimici che stanno dietro le quinte del fenomeno che chiamiamo “amore”, sembra che questi non possano ancora essere hackerati a piacimento per via farmacologica, e l’amore sia ancora frutto essenzialmente delle nostre scelte, grandi o piccole che siano.

Tsk.

Ma un giorno…


GRAZIE di aver letto sin qui! Fatemi sapere che ne pensate nei commenti, qui o sulla pagina Facebook

Ci sono davvero moltissime fonti al riguardo, non sempre concordi, oltre agli articoli linkati; in particolare segnalo questo articolo dell’università di Harvard di cui il mio in alcune parti è quasi una traduzione (e lo scrivo così, senza vergogna).

Se l’articolo vi è piaciuto per favore considerate di condividerlo sui social e di seguire il blog e relativa pagina Facebook! E magari anche quella di Amori 4.0!

Caffeina e teina sono la stessa cosa

Tempo fa feci un semplice post sulla mia pagina Facebook con questo titolo, post che risvegliò un interesse che francamente non mi aspettavo. Successivamente, nel corso di una conversazione fra colleghi, tirai fuori questa nozione per qualche ragione

che non ha nulla a che fare con sventolamenti narcisistici, eh

ed assistendo alle espressioni di stupore di professori e ricercatori, ho deciso di riordinare un po’ meglio quelle poche righe e riproporle qui. Non che ci sia voluto molto: il concetto è solo uno, alla fine.

E comunque l’umanità ne ha bisogno

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La struttura della molecola di caffeina

Nessuna differenza. Nessuna.

Tutto nacque sentendo un’amica della mia compagna dire “sono allergica alla caffeina, ma non alla teina“.

Volevo obiettare, ma uno sguardo dalla donna che amo mi fece desistere.
Vedi poi che ci lamentiamo della scarsa diffusione della cultura scientifica…

Vabbè. Io però fossi in lei cambierei allergologo: le due sono la stessa molecola. Lo sappiamo già dal 1838, anno in cui Gerardus Johannes Mülder e Carl Jobst hanno dimostrato che tra le due non c’è differenza.

Se un caffè vi fa più effetto di un tè, i motivi possono essere molteplici. La pianta del tè di solito contiene più caffeina che i semi del caffè, ma la quantità varia fra le varietà di tè; un tè spesso è più leggero perché l’infusione è un processo estrattivo meno efficiente rispetto a quello che si verifica nella preparazione del caffè. E non va sottovalutato l’effetto placebo nel bere il caffé.

 

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La struttura della molecola di teina. Trova le differenze.

Guardate che bella che è la molecola di caffeina. O di teina. Perché mentirle dicendo che ha una “gemella” che in realtà non esiste? 

“E’ un gioco, cazzo!”

O “due consigli per giovani ricercatori“.
Ma ammetterete che c’è una certa differenza di impatto, fra i due titoli.

Chiedere ai veterani

Poco meno di un anno fa ho avuto la fortuna di trascorrere un periodo di ricerca negli Stati Uniti, presso il Connecticut College di New London, CT.  E’ stato un momento fantastico da un punto di vista “lavorativo” (le virgolette sono d’obbligo secondo me: non riesco a considerare la ricerca unicamente “il mio lavoro”, non più di quanto un prete possa fare col proprio, credo), durante il quale ho avuto la fortuna di incontrare alcuni docenti di grandissimo successo nel mondo della ricerca.
In quell’occasione sono riuscito ad avere la sfacciataggine di porgere ad alcuni di questi una domanda che mi propongo di porre sempre più spesso, e che credo tutti coloro che come me sono all’inizio del proprio percorso nel mondo della ricerca scientifica, un mondo incredibilmente complicato e che sa essere estremamente contraddittorio, dovrebbero porre il più spesso possibile: “se potessi dare un solo consiglio ad un ricercatore all’inizio della sua carriera, quale consiglio gli daresti?

Non che sia stato molto difficile, in realtà – trovare la sfacciataggine, dico.

Primo suggerimento: persegui interessi diversi

Due di questi (di cui non pubblico i nomi non avendo chiesto loro il permesso di farlo, scusate), provenienti da campi distanti fra loro come la chimica organica e l’inorganica,

FERMA, lo so, ha la credibilità di un norvegese che dice di essere “molto diverso” da uno svedese. Ma in questo caso sono davvero due cose molto diverse, giuro!

mi hanno date due risposte sorprendentemente coincidenti: in entrambi i casi, il singolo, prezioso suggerimento si riassume in “interessati di tante cose diverse, non limitarti al tuo campo preferito“. Relativamente, alla propria esperienza personale, il primo dei due professori declinava il suggerimento in “sto conducendo una ricerca molto distante da quello in cui mi stavo specializzando, se non avessi fatto X adesso non potrei mai star studiando Y”. Nel secondo caso, invece, mi è stata restituita una opinione più rivolta al futuro, non priva di un po’ di malinconia: “io ho studiato e praticato esclusivamente chimica organica, e non ho mai potuto dedicarmi ad altro. Ad un giovane, adesso, raccomanderei invece di non fossilizzarsi così su un singolo campo della chimica”.
Ma è sorprendente come i due consigli indirizzassero esattamente dalla stessa parte: resta aperto a campi anche molto distanti dal tuo, e non aver paura di sperimentare.

L’ho trovato ancor più sorprendente, e a dirla tutta confortante, specialmente perché esplicitamente applicato ad un campo di scienza dura come la chimica che, come tutte le sue “sorelle”, soffre molto della sindrome da iperspecializzazione: “se hai un curriculum da analitico, non potrai mai passare alla chimica fisica”, pensavo. O meglio, sono stato portato a pensare. Dall’altra parte dell’oceano, invece, ho ricevuto il suggerimento diametralmente opposto: non fissarti su un aspetto solo della scienza, o rischi di esaurire le carte da giocare.

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L’autore di questo, per esempio, era tutto fuorché specializzato.

Secondo suggerimento: divertiti!

A fine anno scorso, ho avuto la fortuna di incontrare uno dei docenti del mio dipartimento poco dopo il suo pensionamento: si tratta, fra l’altro, dell’autore di uno studio che se non sbaglio (non sono un esperto, chiedo venia) ha avuto un grande impatto sulla ricerca sull’HIV, oltre che di una persona incredibilmente alla mano.

Tratto comune a moltissimi “grandi”, fateci caso.

Dopo qualche esitazione, ho posto anche a lui la stessa domanda. Lui ha alzato gli occhi dalle vecchie carte su cui era chino, ci ha riflettuto un momento e mi ha dato la risposta più bella che riesca ad immaginare: “…divertirsi. Di continuare a divertirsi, di non perdere la dimensione artigianale. E di fare attenzione alle cose inaspettate che vengono fuori“.

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Se non è divertente, qualcosa non sta funzionando.

Poi mi ha spiegato che quelle vecchie carte che stava guardando erano proprio i dati da cui è originato il famoso studio. E mi ha raccontato della sua genesi, che ovviamente è stata totalmente casuale: un campione di sangue che doveva essere un bianco, una sorta di “punto zero” rispetto al quale valutare i campioni di pazienti malati, ha rivelato un comportamento inatteso. E allora la spiegazione di questo comportamento ha aperto, a cascata, la strada a tutta una serie di altre scoperte inaspettate, piccole di per sé, ma che hanno permesso, alla fine, di concludere uno studio che è stato fondamentale per lui e molto importante per il campo di cui si occupava.
Ma questo non sarebbe stato possibile, senza la volontà di “inseguire”, di volta in volta, i comportamenti inattesi che i fenomeni, di volta in volta, di passo in passo, mostravano.

 

Non credo lo dimenticherò mai, mentre concludeva: “E allora uno vede che succede questo, ma non ti spieghi perché, e allora vuoi andare avanti, capire… poi scopri che c’è un’altra cosa che non funziona come ti aspetti, e devi lavorarci ancora, ma a quel punto sai che non puoi mollare, devi assolutamente andare ancora avanti…”

Poi si è fermato un attimo, per voltarsi di nuovo verso di me e darmi la sua ultima, fondamentale considerazione al riguardo. Che ci tengo a lasciarvi:

…è un gioco, cazzo!

Sorrideva.